I FILMS DEL SENSO RELIGIOSO

a cura di Luigi Amicone


DIO HA BISOGNO DEGLI UOMINI (Dieu a besoin des hommes)

Francia 1950 dal romanzo di H. Queffelec;
Reg. J. Delannoy; scen.: J. Aurenche, P. Bost, int.:P. Fresnay, D. Gélin, M. Robinson.

Ambientato su di un'isola al largo delle coste francesi il film narra le vicende di un paese che, a causa della generale condotta immorale e dell'ennesimo misfatto compiuto da alcuni dei suoi abitanti, viene a trovarsi improvvisamente privato della sua unica autorità religiosa: il prete si trasferisce in continente abbandonando la piccola parrocchia e con essa i suoi "selvaggi e impenitenti" parrocchiani. Di qui prende l'avvio questa che è innanzitutto storia di povera gente, di uomini che, anche se da sempre hanno cercato di arrotondare la propria misera economia di sussistenza con scorrerie sul mare e sul continente, non hanno mai perso la "Messa" settimanale e con essa il sentimento del comune Destino, in poche parole: non si sono mai dimenticati di Dio.
Che il film abbia preso spunto da una storia vera (come dice in apertura una voce fuori campo) importa poco, ciò che rende interessante questa pellicola fin troppo datata, ciò che non invecchia nonostante il colore e l'odore di dopoguerra, è il contenuto del suo messaggio: la descrizione, a tratti minuta, della natura del senso religioso, natura che, come tale, è reperibile in ogni esperienza umana. Ma bisogna intendersi: il film è l'apologia del sentimento religioso innato nell'uomo, e non della tradizione cristiana in quanto tale. Il cristianesimo è soltanto il contesto casuale in cui si svolge l'azione del dramma, è un contesto psicologico che fa da sfondo al sentimento comune del popolo. Più che ad un'esaltazione della cattolicità del cristianesimo, il regista mira a sottolineare e a far emergere l'implicazione originaria dell'"essere" con Dio, l'evidenza elementare del Divino per e nell'uomo.
La rilevazione di tale evidenza è il contenuto principe di tutto l'intreccio narrativo: al centro c'è Dio e insieme l'uomo, l'uomo per sua natura portato ad affermare il "Quid", il Motivo ultimo ed esauriente per cui vale la pena vivere. È proprio a partire da ciò, dalla consapevolezza di questo rapporto originario che lega l'uomo a Dio che, sembra dire il regista, può costituirsi un popolo, un'unità materiale e spirituale. L'unità fra la gente, un'unità di intenti e di sentimenti, quindi una cultura, si costituiscono a partire dal senso della comune Origine e del medesimo Destino. È ciò che allo stesso tempo esalta, facendolo assurgere alla dignità di Storia, il banale, il quotidiano vivere anche su di uno sperduto isolotto in balia dell'oceano, lontano, alla periferia, aimargini del mondo.
È il senso di una Presenza più grande che rende la vita tale, che avvalora il bene e il male e dà significato al tempo. E di questa Presenza c'è il Tempio, lì nel villaggio come in tutti i villaggi del mondo, c'è la Chiesa che domina sulle altre costruzioni. Una di quelle chiese che i moderni intellettuali disprezzano ma su cui, tra le screpolature dei mattoni, potremmo leggere la stessa scritta che sta scolpita sulla facciata di quella che compare nel film: "Costruita per volontà di Dio e sudore del popolo".
È domenica, il prete se n'è andato, la campana che chiama alla messa resta muta, eppure la gente è lì, assiepata davanti all'entrata della chiesa con le sue seggiole portate da casa: "Succede come a mezzogiorno, anche se non hai da mangiare la fame la senti", dice lo "zio", il rappresentante anziano del villaggio.
Se la caratteristica prima del senso religioso è questa attitudine naturale dell'uomo e dei popoli a riconoscere che la vita è "agganciata", legata a un "Altro", il secondo fattore che contraddistingue tale esigenza originaria è il bisogno di un'esplicitazione fisica, di segni materiali, di appoggi oggettivi che, a tale sentimento primordiale, garantiscono una stabilità e una memoria nel tempo. Così che la storia delle religioni è innanzitutto storia delle forme e dei simboli concreti che la religiosità ha assunto nelle diverse vicende dei popoli: persone autorevoli, dottrina, riti, sono le forme reali e imprescindibili che assume storicamente qualsiasi esperienza religiosa. Ed è a queste forme, anche se atavicamente, in modo primitivo, che questa gente è attaccata: e chiede la messa, l'acqua santa, le funzioni per i suoi morti. E soprattutto chiede il perdono, il Sacramento del perdono, perché "solo Dio può perdonare", solo nel suo nome si può essere perdonati. Così è che Tommaso, il sacrestano, viene coinvolto e quasi costretto ad assumere la funzione di autorità religiosa, di tramite fra Dio e gli uomini. E anche se in contraddizione con il precetto della Chiesa Cattolica che vuole che sia il Papa attraverso i Vescovi a eleggere i suoi sacerdoti, Tommaso "deve fare il prete" proprio per rispondere a questa urgenza di oggettività insita nel senso religioso.
Tommaso: quello che capisce la gente e i suoi problemi, quello "che sa parlare bene", che sa accusare il peccato ma anche accogliere il peccatore; lo stesso Tommaso che in conclusione saprà indicare al popolo la più grande oggettività della Chiesa, sottomettendosi al Suo giudizio nonostante l'inettitudine e la grettezza umana del ministro che La rappresenta. Tommaso è dunque l'eroe del racconto, ma un eroe del tutto sui generis (e non certo dei nostri tempi "giacobini") in quanto testimone e memoria non di un personale progetto o opinione o ideologia, ma del comune destino e significato a cui è legato il popolo. È una presenza attorno alla quale l'unità si ricompone. E infatti: fatti e misfatti personali, amori, rancori e odî vengono compresi e giudicati dal senso religioso che Tommaso incarna e testimonia visibilmente.
"Bisogna aspettare, in questo momento la gente non capirebbe", dice il sacrestano alla donna che pure ama e che desidererebbe sposarlo subito. Il dovere verso Dio e quindi la responsabilità di fronte al popolo di essere segno e via al comune destino è più importante, viene prima anche dei sentimenti più intimi e personali. È una giustizia diversa da quella che siamo abituati ad affermare: "I figli sono capaci tutti di farli - dice una vecchia alla fidanzata delusa - di fare il prete è capace solo Tommaso". Ecco in onclusione anche il richiamo alla figura del prete, alla funzione sacerdotale che assume ben altra considerazione da quella che siamo soliti intendere. Anche da questo film si capisce che alla base del Sacramento cristiano dell'Ordine, non un moralismo c'è, ma un atteggiamento realistico nei confronti dell'umano, la realistica considerazione che non vi è nulla che possa essere per l'uomo di più grande richiamo al significato ultimo dell'esistenza, come l'esistenza di uomini che si rendono "eunuchi" per il Regno di Dio.


DIES IRAE (1943)

di C.T. Dreyer Scen.: C. T. Dreyer, M. Skot-Hansen, P.Knudsen.
Realizzato nel 1943 durante l'occupazione tedesca della Danimarca, pure, tra i films di Dreyer, questo è forse il più attuale: per l'esperienza umana che descrive, vittima/vinta dalla solitudine, dalla "non-libertà", dall'impotenza ad "essere" e ad essere insieme, l'opera è davvero da "lacrime". Ma fu l'autore stesso a intuire la grandezza della sua creazione: "Sebbene non vi avessi coscientemente mirato, raggiunsi una forma drammatica che secondo me ha delle caratteristiche comuni a quelle della tragedia". E Dreyer, questo genio della cinematografia che per tutta la vita dovette faticare per trovare produttori disposti a trasformare in immagini le sue sceneggiature, davvero con questo film si fa poeta di una tragedia umana, personale e collettiva, non sconosciuta ai nostri giorni.
Prendendo spunto dal dramma teatrale "Anne Pedersdotter" del norvegese H. Wiers-Jenssen, il nucleo centrale della storia è rappresentato dalle vicende della giovanissima moglie di un pastore luterano e del suo amore per il figlio di primo letto del marito. Dopo la morte improvvisa del pastore, la storia si conclude tragicamente con un'accusa di stregoneria: davanti alla bara la giovane donna viene istigata a riconoscere di aver provocato con la magia la morte del vecchio marito. A uno sguardo superficiale il racconto può apparire (con la sua prima parte di "caccia alla strega") nient'altro che "un tentativo di spiegare psicologicamente come l'intolleranza e lo scandalo furono un tempo usati dalle autorità ecclesiastiche (in questo caso luterana) per rafforzare il proprio potere su una popolazione ignorante e facilmente suggestionabile" (Ole Storm). In realtà, pur affidandosi alla rievocazione di fatti storici dai quali emerge quale doveva essere il terribile senso del peccato che dominava nei paesi nordici nel secolo successivo alla riforma luterana, il formalismo e il moralismo repressivi d'epoca, il contenuto dell'opera di Dreyer supera, a nostro avviso, la visione riduttiva di quei critici che hanno visto nel film soprattutto i segni di una protesta e di una denuncia di certa ideologia autoritaria.
La denuncia e quindi la tragedia vera, di cui tutta l'opera del regista danese è permeata, non riguardano innanzitutto fattori esterni alla persona, sociali e sociologici. I drammi, le lacerazioni, l'angoscia sono sorpresi nel cuore dell'uomo, all'interno della sua condizione esistenziale. Non a caso anche la tecnica narrativa, l'uso ad esempio del primo piano dilatato, o come l’ha chiamato il regista stesso, "scorrevole", lungo e fluido, che accompagna la recitazione degli attori, spostandosi, come le battute del dialogo, dall'uno all'altro, risponde proprio a questa esigenza di chiarire e far emergere l'intimo dramma della persona. E la tragedia, in questo come in altri films di Dreyer, è quella, profondamente sentita dal protestantesimo, dell'uomo, lo dicevamo in apertura, che si trova impotente a realizzare se stesso: c'è, per l'uomo esiste il Termine assoluto di paragone, il Significato, Dio, ma è come se ultimamente tutto ciò rimanesse fuori, fuori dall'umana esistenza, alla vita reale esterno, estraneo alle esigenze più sentite dalla persona, alle esigenze di amicizia, di amore, di perdono. Il Destino incombe sui dolori e le gioie dell'uomo, ma simile al Fato degli antichi, rimane sospeso oltre i cieli; oltre il cielo la presenza di Dio resta muta e greve come il piombo.
Spesso la gioia di un momento, un peccato segreto... ma, Gesù Signore, che vita vivono gli uomini!", dice ad un certo punto il vecchio prete in preda allo sconforto. L'immagine della vita dell'uomo è quella della scena in cui Absalon, dopo la veglia al capezzale del morto Laurentius, ritorna a casa in una notte tempestosa lottando con la tormenta e il freddo.
Per il protestantesimo la vita è come un supremo e disumano atto di volontà, di resistenza di fronte alla forza e alla furia della terra e dei suoi elementi: la furia idiota del reale che spezza col suo respiro gelido tutte le aspirazioni di felicità dell'uomo. In questa vita non c'è pace, "non vedo che peccato e peccato e peccato", dice ancora il pastore: tutto l'umano rimane come bloccato in una solitudine immensa e disperata. Come già in Leopardi ("Che è questa solitudine immensa/ e io che sono?"), ciò che vi è di più acuto e di più commovente nell'atteggiamento protestante è questa coscienza, questo sentimento di sproporzione che immediatamente si trasforma in volontà di dedizione, di dipendenza, di tensione totale e assoluta al Significato, a Dio, a colui che - come dice la madre del Maccabei - chiama all'esistenza "le cose che ancora non esistono". Ma come già accadde a Ulisse, anche per il protestantesimo è inevitabile che "il folle volo", la pretesa di sostenere con le sole proprie forze il rapporto con l'ideale, e quindi la impossibilità a perseguire il Destino con le proprie "picciole" volontà e ragione, conducano inevitabilmente alla disfatta e al disfacimento l'umano. L'amore, "ti vedo fra le lacrime... e io te le asciugo", possibilità di compagnia, di perdono, e perciò di unità fra gli uomini, divengono, in una coerente visione protestante della vita, possibilità astratte, impossibili, ultimamente follia, di cui l'emblema è rappresentato dalla disperazione di Anna nell'ultima scena: "Guardo attraverso le lacrime..., ma nessuno viene ad asciugarmele".
Niente può infine opporsi alla disperazione, al male. "Che strano potere può essere proprio all'uomo", dice Anna: desidera l'amore di Martin e viene esaudita, la morte del vecchio marito Absalon e questi muore. "E potente il Maligno", sono le parole pronunciate dalla vecchia strega, quasi le prime parole del film. Il male, il peccato non trovano più barriere: di fronte all'uomo in disperata lotta contro l'ingiustizia si aprono solo gli abissi delle personali interpretazioni, opinioni e sentimenti. E a questo proposito la figura della suocera di Anna, e madre di Absalon, è davvero esemplificativa anche della mentalità presente (e non soltanto a riguardo dei rapporti familiari) perché rappresenta l'applicazione della legge del dente per dente: "Ucciso sta mio figlio nella sua bara...
E chi ha ucciso sta lì. Esigo vita per vita, sangue per sangue...". La giustizia è così "l'odio per l'odio". "È potente il Maligno": in "Dies Irae" non c'è frangente dell'umano che possa sottrarsi a questa sconfitta. "Con la morte comincerà la vita..." dice ancora Absalor citando un versetto della Bibbia: il protestantesimo (ma anche tanto cattolicesimo, per così dire, "riformato") si trae all'orrore della terra con la fuga in una salvezza nell'Al di là. Ci vorrebbe, e questo Dreyer lo intuisce, ci vorrebbe, dicevamo, un "punto di fuga", una possibilità di salvezza qui e ora, qualcosa a cui l'uomo possa interamente appartenere; qualcosa di simile all'appartenenza, al legame che c'è tra una madre e il proprio figlio. E questa possibilità venne descritta, ma è meglio dire, appena accennata, nella sceneggiatura del dramma: Anna e Martin sono insieme in un prato, intorno a loro la natura, un agnello che si nutre dalla madre, una giovane donna col bambino in seno. Erano immagini previste, scritte sulla sceneggiatura, e che comprendevano anche il gesto di Anna che prende il bambino in braccio e lo solleva con gioia. Sarebbero state le uniche improvvise luci di speranza in mezzo all'inesorabile oscurità della tragedia.
Ma è significativo che proprio queste scene, (le uniche che avrebbero potuto indicare profeticamente una via di scampo trasformando la tragedia in dramma) durante la lavorazione del film vennero dal regista eliminate. Il sipario si chiude sull'immagine di quel volto, di quelle lacrime disperate, e si è sorpresi al pensiero che questa è semplicemente la descrizione della condizione umana.


ORDET

(1955) di C.T. Dreyer dal dramma omonimo di Kaj Munk - Reg. C.T. Dreyer - scen.Erik Ades
Fra tutti i films di Dreyer, "Ordet" (La parola) è quello che più si mantiene fedele all'opera originale, il dramma omonimo dello scrittore Kay Munk. Al film il regista inizia a lavorare fin dal 1933, anno in cui Dreyer cominciò la stesura di appunti per la sceneggiatura di questo film che giungerà a realizzare solo nel 1955. Ambientata nella campagna danese, in un paesaggio che, come già avvertiva il critico Ole Storm, "prende parte attiva all'azione e contribuisce al sorgere di stati d'animo e sensazioni che per il drammaturgo è impossibile esprimere sulla scena", la storia si focalizza attorno alle vicende di una famiglia le cui tradizioni e convinzioni religiose vengono espresse da ciascun membro in modo significativamente diverso. Ciascuno dei personaggi implicati nella narrazione fa infatti emergere una particolare esperienza umana nei confronti della visione cristiana-protestante della vita.
Soggiacente a tutta l'azione è l'idea, espressa dal regista stesso, per cui "chi è sufficientemente forte nella fede ha anche il potere di operare i miracoli". Cristianesimo abitudinario e fede autentica sembrano dunque i due connotati di questa ennesima "storia religiosa" posti e proposti all'attenzione dello spettatore.
Anche in questo film, come già in "Dies Irae", l'uso dei primi piani "scorrevoli" risponde alla necessità sentita dal regista di "visualizzazione" del dramma interno vissuto dai protagonisti: "Dove il drammaturgo - scrive ancora O. Storm - per esprimere i sentimenti dei suoi personaggi, deve ricorrere all'artifizio del monologo interiore, Dreyer raggiunge un effetto più ricco e molto più espressivo visualizzando gli scambi di battute. Egli drammatizza l'introspezione e, oltre a un atmosfera concreta, crea un particolare stato di tensione spirituale che la completa... Il dialogo è perciò volutamente tenuto in second'ordine. Solo l'indispensabile viene pronunziato. Tutto l'essenziale viene affidato all'immagine". Ma ciò risponde anche ad un'altra esigenza, quella cioè di realizzare, attraverso l'immagine, un maggior "realismo psicologico"; realismo che viene perseguito dall'artista a partire dall'osservazione intensa e appassionata di ciò che meglio esprime nell'uomo i suoi sentimenti e stati d'animo: il volto: "Nulla al mondo - scrive Dreyer - può paragonarsi al volto dell'uomo. E un paesaggio che non si finisce mai di esplorare, di particolare bellezza, dolcissimo o aspro che sia". La novità rispetto ai contenuti di "Dies Irae" è rappresentata dal lieto fine, dal miracolo che avviene: Jnger, la morta, viene resuscitata da Johannes, il demente che si crede la reincarnazione di Cristo. Come per Kierkegaard, la vera malattia mortale è per Dreyer la mancanza di fiducia, di fede: la solitudine, la disperazione dell'uomo hanno un'unica possibilità di superamento: il rapporto con Dio. Per questo, protagonista in assoluto del film non è quello o quell'altro personaggio, ma la fede, la fede così diversamente incarnata dai singoli individui. Così viene descritta la fede del capofamiglia, degli anziani, che se non è moralista, anche se è sincera e sofferta, appare come sterile e fredda. Emblematica a questo riguardo è la scena dell'incontro tra i due vecchi capofamiglia, Borgen e Peter, dove ognuno dei quali rinfaccia all'altro questa fede triste, da "beccamorti" dice a un tratto Borgen (sovvengono a questo proposito le dure parole di Nietzsche: "Canti migliori dovrebbero cantarmi, perché io impari a credere al loro redentore: più redenti dovrebbero sembrarmi i suoi discepoli!").
C'è poi la fede di Jnger (Anna, in "Dies Irae", Jnger in "Ordet" sono, scrive G. Aristarco, "gli unici personaggi viventi in questi sepolcri, dove anche i giorni che dovrebbero esser di gioia sono tristi"), più aperta e gioiosa, semplice ma meno "intelligente". C'è infine la fede di Johannes, la fede del pazzo che si crede Gesù. La sua figura è l'immagine della fede protestante che non può più reggere il confronto con la vita.
Johannes è pazzo, ma più degli altri ha il senso della presenza di Cristo. E infatti, quando in conclusione egli torna in sé, la fede, la nuova ragione riacquistata è cattolica: in nome di Cristo, Johannes insieme alla bambina, la loro fede compie il miracolo. "E il film che preferisco: il film più equilibrato fra tutti quelli che ho fatto", ha dichiarato il regista. E certo, l'opera è quella che maggiormente esemplifica l'atteggiamento protestante, così sospeso com’è tra la disperazione più totale e la possibilità (ma "possibilità astratta" come giustamente qualcuno ha notato) del miracolo, di un indizio di salvazione terrena della vita. Era naturale che, visto il tema principale dell'opera, la critica, pur rendendo onore al genio dell'autore, esprimesse non poche perplessità riguardo ai contenuti.Così G. Aristarco (il critico che per l'Einaudi ha curato la pubblicazione delle sceneggiature di cinque films di Dreyer recensendo la "prima" di "Ordet" non poté non rimproverare al regista, dall'alto della sua visione piccina (e piciista?) scientista e materialista (in questo caso marxista) questa sua fuga nell'irrazionale: "È sconcertante scoprire che Dreyer, in questa era atomica sintetizzata dalle equazioni di Einstein, rifiuta la scienza per i miracoli della religione"(dal n. I di "Film culture", 1956). Sarebbe bastato forse un invito ad un'informazione più dettagliata, a una osservazione più scientifica dei fatti, il consiglio di una qualche buona lettura, come quella ad esempi del libro "Viaggio a Lourdes" del Nobel A. Carrel, lo scettico scienziato convertitosi al cristianesimo dopo aver assistito personalmente al miracolo di una guarigione ritenuta scientificamente impossibile. Purtroppo Dreyer non seppe rispondere adeguatamente se non facendo riferimento a improbabili "ricerche della psicologia" in merito. Ma questa posizione del regista è sintomatica, segno ancora una volta della debolezza fondamentale del protestantesimo, che se da una parte valorizza il senso religioso, se di esso è una delle affermazioni più acute e drammatiche, dall'altra, lascia sospesa l'esperienza umana su un baratro incolmabile, su un Destino ultimamente irraggiungibile e, se non in casi eccezionali, normalmente estraneo, lontano, troppo lontano dalla vita e dagli uomini.


L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI

di E. Olmi (1978) Reg.e scen. E. Olmi
Premiato con la Palma d'Oro al festival internazionale del cinema di Cannes nel 1978, il film, di cui viene proposta una versione in lingua "italiana" (nell'originale i dialoghi sono in bergamasco stretto), è una rievocazione del mondo contadino così come doveva apparire nella campagna lombarda alla fine del secolo scorso. Costruita per "quadri", per scene strutturate ad incastro e in cui vengono narrate le vicende di diverse famiglie sullo sfondo comune "della vita in cascina", quest'opera, oltre che rappresentare una testimonianza eccezionale dell'umanissima visione cristiana e cattolica della vita, può davvero essere considerata uno dei più autentici e profondi documenti sulle "radici" della società italiana che siano mai stati scritti con le immagini. Il significativo titolo è ricavato da un episodio narrato all'interno del film stesso: Batistì, che non può ricomperare un altro paio di zoccoli al figlio Minek che li ha rotti, viene cacciato dal padrone della cascina per aver tagliato un albero, un pioppo che il contadino ha trasformato in un paio di nuovi zoccoli per il suo bambino. Significativa ancora, e sempre a proposito di alcuni elementi determinanti la pellicola, la scelta del regista di impegnare nella recitazione attori non professionisti; e infatti per Olmi questa scelta a favore di attori contadini ha un significato morale ben preciso perché, come ha detto il regista stesso: "È gente che quando fa un gesto è autorizzata a farlo perché ne diventa l'interprete ufficiale, perché quel gesto è la sua sofferenza quotidiana". Anche qui, come nel film Ordet di Dreyer, protagonista in assoluto è la fede; ma una fede diversa, pacificante e vissuta quotidianamente, in ogni frangente della vita. Ci si rivolge a Dio all'inizio della giornata, in ogni occasione triste o lieta essa sia. E ancora con la preghiera si conclude la giornata, con un'orazione semplice e oggettiva come la litania del rosario. Differentemente che in "Dies Irae" o in " Ordet", caratteristica di questa fede è appunto la sua cattolicità, la capacità di comprendere ed abbracciare ogni atto e qualsiasi avvenimento; la sua totale immanenza alla vita. Batisti è felice del terzo figlio anche se "è una bocca in più da sfamare" cosi anche la moglie, che di rimando gli ricorda il proverbio: "A ogni bambino la Provvidenza dà il suo fagottino". La fede, così come viene vissuta dai contadini in questo film, è una dimensione immanente gli atti che compongono la trama normale dell'esistenza quotidiana; non è qualcosa di librato o incombente in aria che astrattamente consola il cuore dell'uomo. La consolazione o l'ingiunzione religiosa è, in questo film, dentro la carne e le ossa della vita quotidiana, qualcosa che dona alla vita un carattere di certezza profonda, di capacità di sopportazione stupefacente, di pazienza e quindi di realismo grandiosi.
Proprio per questa coscienza di appartenenza a un Destino più grande, ma buono e positivo, ogni gesto (e ce lo rammenta in sottofondo la musica di Bach) diventa sacro: il lavoro, la festa, la nascita di un figlio, un matrimonio, tutto diviene occasione entro la quale esprimere il comune significato che si vive.
Anche i gesti di carità individuali sono espressione del medesimo sentimento di comunione: ognuno rispetta ed accoglie nella sua casa il povero, il "diverso", perché, come dice la vedova richiamando i suoi bambini a non burlarsi del mendicante matto Giopa, "questi sono i più vicini al Signore".
La fede: "il miracolo di tutti i giorni è la forza che l'uomo non ha, la forza dell'amore di Dio" dice il prete nel film.
Da qui, nonostante tutte le ingiustizie, l'umanità che emerge esprime una certezza e una tranquillità inconcepibili al di fuori della tradizione religiosa cattolica del popolo. E la fede cattolica è una capacità di affronto di tutto ciò che accade, che fa diventare i volti di questa gente pieni di dolore o colmi di letizia, ma che non arresta mai il cammino della vita. Ci può essere, è vero, una carenza rilevabile nell'atteggiamento di quella gente, una carenza che nel film è discretamente accennata nella seconda parte: questa fede, che pure informa visibilmente ogni azione, è come se reclamasse una maggiore azione per la giustizia, come se dovesse rendere espliciti un coraggio, una scaltrezza, una iniziativa sociale maggiori.
È un'ulteriore incarnazione che la fede necessita: ma sia la scaltrezza che l'iniziativa, sono frutto di una intelligenza storica, di possibilità che si sviluppano (e perciò di questo abbisognano) nel tempo.
Non si può, in modo affrettato e superficiale, giudicare l'ultima scena come espressione di una "rassegnazione": cento anni fa era impensabile un atteggiamento diverso di fronte alla pur flagrante ingiustizia.
Da Tracce Marzo 1992
Olmi racconta una storia drammatica, eppur lieve. Protagonisti alcune famiglie di contadini che vivono nella Bassa bergamasca sul finire del secolo scorso. Un film di coralità e insieme ritratto di esperienze singole. Il cristianesimo diviene carne, quotidiano. Non sono vinti dolore e ingiustizia. Ma tutto è un avvenimento nell'ambito del popolo che l'incontro genera: la natura, l'amore, la povertà, il diverso. Soprattutto ogni giorno è il luogo del miracolo piccolo o grande e della domanda per chiedere quella forza che l'uomo non ha. Grave e sublime la musica di Bach.


LETTURA SINTETICA DEI FILM PRESENTATI

Cos'è il senso religioso? È riconoscimento, intuizione ed accettazione che la propria vita è nelle mani di un Altro; che il significato, ciò in cui e per cui consiste la realtà è "al di là", trascende la realtà stessa. Quello che è esaltato in "Dio ho bisogno degli uomini" è questo aspetto originale dell'esperienza religiosa; la primitività della gente che compare nel film favorisce la trattazione di questa tematica. Ma c'è un altro aspetto del senso religioso che emerge dal dramma: l'urgenza che porta naturalmente l'uomo ad affermare la propria dipendenza da un "quid" più grande, l'evidenza di questo nesso con Dio può essere fino in fondo affermata solo attraverso una adesione a dei segni concreti e oggettivi. E infatti, tale implicazione è così necessaria che viene affermata anche contraddittoriamente alla tradizione cattolica a cui pure quella gente atavicamente apparteneva. "Verbum caro factum est" : questo annuncio è nel film anche annuncio cristiano, ma è soprattutto espressione del fatto che il senso religioso ha bisogno di un appoggio esterno.
E "l'esterno a sé" (riti, segni, autorità) è sempre una connotazione dell'oggettivo. Opposto alla tematica del film e quindi al senso religioso è quell'atteggiamento che nega questa esigenza di oggettività: l'atteggiamento intellettualistico per il quale l'esperienza religiosa consiste in un patto intimistico fra sé e Dio. L'epoca post-razionalistica propone all'individuo questa apparente purità: "il sentimento religioso è la tua personale coscienza". Così intesa l'esperienza religiosa viene fatta coincidere con le immagini e le decisioni individuali. Questo atteggiamento contraddice la natura dell'uomo e perciò conduce inevitabilmente ad una riduzione del senso religioso.
In "Dies Irae" e in "Ordet" emerge un'umanità più intellettualmente coscientizzata e perciò più drammaticamente espressa e realizzata. Sono film che bene esprimono l'esperienza religiosa del protestantesimo: l'estremo e più nefasto errore perché frutto di una posizione vicinissima alla Verità ma non ad essa adeguata.
L'ammalato di mente in "Ordet" è fuori dalla vita degli altri uomini, è estraneo, è inammissibile, è sopportato. Allo stesso modo nei film di Dreyer è estraneo Dio. Dio è inaccessibile. " Ordet" è l'emblema dell'annuncio cristiano (un uomo che si è detto Dio) visto dal protestantesimo come assurdo e inaccessibile. In "Ordet" il pazzo è fuori dalla vita come fuori dalla vita è Dio; l'unico modo per assimilarlo all'uomo è quello della legge morale, il "dover essere" senza altra immagine che il precetto, la legge. La bontà in "Ordet" è sopportare il matto, è moralismo. Nel cattolicesimo Dio diventa assimilabile alla vita quotidiana, Dio è una presenza.
Ne "L'albero degli zoccoli" anche il matto fa parte del mistero, è parte della famiglia, di più, parte del mistero buono della vita; è il modo con cui si è più richiamati ad accettare il mistero dell'esistenza. Il pazzo così come il dolore, come il male, sono modalità attraverso cui l'uomo è più richiamato da Dio a riconoscere il mistero. Occorre che Dio entri nella carne e nel sangue dell'uomo perché dolore, morte e persino il male siano vissuti come segno in cui l'uomo è più richiamato a ciò che è Dio.Se il rapporto con l'Assoluto viene invece ridotto a legge morale ciò che prevale è la solitudine dell'uomo.
Nel protestantesimo tutto viene ricondotto alla propria esperienza individualisticamente intesa, così che l'uomo rimane vittime di una solitudine tragica. L'uomo resta isolato e solitario tant'è vero che è portato a rinnegare anche quella solidarietà naturale che è spontanea nel primo film. L'individuo si dibatte tra una disperata fede e il surrettizio riemergere delle esigenze naturali che lo costituiscono. Il rigore della posizione protestante non può abbracciare la nostalgia di quello che l'uomo è.
La parabola della posizione protestante è quella di partire da una concezione intellettuale per recuperare poi, come ripiega moralistico, ciò che viene di fatto negato: gesti, solidarietà, sacramenti...
Un atteggiamento moralistico in cui la fede è un sentimento soggettivo, non può evitare di scivolare, prima o poi, in una disperazione sottile, nascosta ma radicale, oppure nel farisaismo, nella custodia e nell'affermazione delle leggi a prescindere dalle aspirazioni e dalle umane esigenze. Dal punto di vista protestante il film "Ordet" è il più coerente e comprensibile: il rapporto col divino è moralistico, un rapporto che consiste tutto nell'adesione ai comandamenti, nella lettura della Bibbia, nel rispetto della legge; così che il protestantesimo coerentemente espresso non può evitare il farisaismo (per essere tranquilli e a posto con la propria coscienza si riconducono i comandamenti entro una propria immagine, e all'interno di questa si tende per esempio a privilegiare un precetto a discapito di un altro) e, in secondo luogo, il "disagio disperato": l'impotenza dell'uomo ad essere fino in fondo se stesso.
Dostoijevskij diceva che "se Dio non ci fosse tutto sarebbe indifferente", nel senso che senza la coscienza del suo destino ultimo la vita non solo perderebbe di significato, ma verrebbe a mancare anche di un criterio oggettivo sulla cui base giudicare ciò che è bene e ciò che è male. Il protestantesimo raggiunge forse la percezione più acuta di questa inesorabile presenza da cui tutto dipende: dove sta dunque il cuore del problema? L'affermazione di Dostoijevskij, così come la posizione protestante, non sono ancora completamente vere: bisogna aggiungere che "se Dio non si fosse reso presenza incontrabile, se non fosse sperimentabile nella vita quotidiana, tutto rimarrebbe indifferente".
L'essenza del sentimento religioso è che Dio è tutto; Egli è il Signore e perciò deve essere Presenza dentro la realtà di oggi, altrimenti è inutile. Cos'è la presenza del divino dentro la realtà presente? È miracolo: il miracolo è lo scorgere la presenza del "totalmente altro" dentro la nostra vita. Il miracolo è la presenza di Cristo, una presenza tra noi, qui, ora, nell'esistenza quotidiana.
Questo passaggio fa capire l'ultimo film, la razionalità e la naturalezza del cattolicesimo. Nei films di Dreyer il miracolo è fuori dalla vita, totalmente giustapposto; il pazzo: una presenza giustapposta alla vita e alla realtà. "Ordet" sembra diverso da Dies Irae" perché in Dies Irae" il miracolo non accade. Invece anche in "Dies Irae" il miracolo avviene, ma è oltre: "Confortati, tra poco sarà tutto finito...; l'uomo è totalmente impotente: "Guardo attraverso le lacrime... ma nessuno viene ad asciugarmele".
In "Ordet" il miracolo sembra dentro la vita ma è assolutamente artificioso, giustapposto, non nasce dentro il groviglio dei sentimenti buoni e cattivi; non nasce a mensa, in un dialogo, in una stalla: è fuori dalle cose, la salvezza è al di là è astratta, oltre la vita, esattamente come in "Dies Irae".
Nel protestantesimo la salvezza e il miracolo sono al di là. Nel quarto film il miracolo è così "dentro" la vita, così quotidiano e normale da non essere percepito come tale da uno sguardo che non sia di fede.
L'ultimo film giudica tutti gli altri, perché il senso religioso vi è documentato ed esaltato secondo la sua versione cattolica. La corrispondenza dell'umano alla sua natura coincide con l'affidamento che si esprime in un sentimento di sicurezza: l'affidarsi al segno oggettivo con tutta la propria umanità, piccola, grande, buona o cattiva che sia. L'affidamento cristiano è così radicato nella mentalità e nel sentimento che a uno sguardo superficiale può apparire come "rassegnazione". A differenza del primo, in questo ultimo film l'affidamento è diventato naturale, naturale come il bene che c'è tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra uomo e natura.
Il senso religioso è riconoscere la Presenza che in ogni istante mi dona la vita, la grande Presenza che non dipende da me. A questa Presenza bisogna affidarsi: affidarsi nello sfratto come nel miracolo della vacca che improvvisamente torna a rialzarsi.
L'essenza del fatto religioso è l'affidamento. Quella de "L'albero degli zoccoli" è gente diversa in cui l'affidamento è diventato sentimento di sé e della vita. Nell'ultima scena il confronto con il futuro è pacato, un confronto doloroso, faticoso, ma ultimamente in pace. Questa gente cammina verso il futuro con pace, questa è la condizione per ricominciare sempre. Di fronte all'ultima scena noi siamo tentati dalla disperazione, quella gente no. È dall'affidamento che nasce l'affezione.
L'affezione è il frutto nell'umano del senso religioso. Non esiste affezione se non nell'intuizione di un significato comune e positivo, se non nella coscienza di un destino misterioso, ma comune e positivo. Non c'è affezione se non in questa prospettiva.
Nei film di Dreyer la paranoia, il distacco dall'io, l'impotenza, l'alienazione, nascono dall'impossibilità all'affidamento e quindi dall'impossibilità ad amarsi e ad amare. In "Dio ha bisogno degli uomini" emerge una solidarietà potente fra gente che essendo sulla stessa "barca" (l'isola) e dovendo andare verso il continente si stringe in unità; ma non c' è amicizia. Compiono il viaggio per il bene del corpo (la donna che deve partorire) e per quello dell'anima (il bisogno di procurarsi l'acqua benedetta), ma tra loro c'è una solidarietà simile a quella di gente su uno stesso aereo che improvvisamente prendesse fuoco: persone fino ad un momento prima estranee le une alle altre e che si uniscono di fronte ad un pericolo comune.
Nell'ultimo film c'è un legame incommensurabile, una solidarietà imparagonabile, un'unità nuova, non occasionale, dovuta alla coscienza del destino comune. Una presenza sentita dalla donna a letto che deve partorire, in chi l'aiuta, nel nonno che insegna alla bambina il mistero della pianta di pomodori. Il metodo per imparare a vivere questo affidamento è impararlo da chi è più grande, da chi già lo vive come condizione normale. Non c'è nessun altro modo per impararlo.
In questo atteggiamento in cui ci si affida che cosa significa costruire? Nel primo film costruire significa affermare il proprio bisogno istintivo per cui anche la violenza viene giustificata. Nel protestantesimo la costruzione è l'estrema formula del dovere morale.
Nel quarto film la costruttività scaturisce dalla utilizzazione di tutta la propria umanità, di tutto ciò che si ha in funzione di un ideale, e questo senza il bisogno di introdurre nessun alibi e perciò senza la presunzione nefasta dell'ideologia. La formula della costruttività è una positività totale come criterio ultimo nell'affronto della realtà in tutte le condizioni: è la fede, la fede come progetto di umanità nuova, progetto di vita per sé e per gli altri. La fede che abilita a un progetto di vita che non può non investire ogni aspetto della realtà.
Cristo per 30 anni fu uno come tutti gli altri. In Lui traspariva soltanto una certa diversità che solo le persone più semplici o acute riuscivano a riconoscere. Cristo, Dio fatto carne: questo è l'avvenimento che fa diverso il quotidiano. Questo è l'annuncio cristiano: una dimensione diversa nel quotidiano sociale, politico, economico che sia. Noi siamo dentro il flusso dell'esperienza di San Benedetto: "Il cristianesimo ha reso l'eroico quotidiano e il quotidiano eroico". Il rapporto col destino è intuito dall'artista, attuato dall'eroe, ed è donato nell'avvenimento cristiano. Solo il cristianesimo "rende il miracolo quotidiano e il quotidiano miracolo".