LUNTANE, CCHIÙ LUNTANE

Articolo Tracce Febbraio 1998 di Paola Bergamini
Nove anni da prete in Abruzzo. Il filo di una fedeltà alle circostanze, dolorose e felici. Dentro l’alveo di una amicizia speciale.
Aeroporto di Pescara. Ore 21,40. Fuori dai cancelli d’imbarco con lo sguardo cerco il segno di riconoscimento: una copia di Traccein mano ben in vista. «Ehi, ma non vale: tu hai la copia nuova. Ciao, sono don Maurizio. Loro sono Nicoletta... beh li conosci dopo. Andiamo a mangiare, gli altri ci aspettano al ristorante, Hai detto che il pesce ti piace». Certo che mi piace, sto per rispondere. Ma non c’è il tempo di rispondere. Siamo già in macchina. Al volante della golf don Maurizio fa le presentazioni: Nicoletta, Andrea, Paolo. Tutti universitari. Chi a Pescara, chi a Chieti, chi a Teramo. Manca un rappresentante de L’Aquila, quarto  ateneo abruzzese. «A’ Maurì, me fai tirar su le budella! Con sta guida...». «Mo’ placate. Che siamo arrivati». Un bergamasco con la cadenza abruzzese?! Ma va! Si scherza, si ride un po’, sembra quasi già di conoscersi. Nessun imbarazzo. Ci sediamo nella saletta riservata del ristorante. Al gruppo si sono aggiunti Barbara, Fausto e poi Marco e Francesca, laureati. «Da quando si sono sposati, casa loro è diventata la “sede” serale per le riunioni... ». «Eee Maurì riunioni! Le cene con morra finale alle tre del mattino». Altre risate. «Almeno tu Francesca, che sei stata la mia segretaria prima di Debora». C’è un attimo di silenzio. Debora è morta in un incidente stradale il 30  dicembre mentre con il fratello, la sorella, un’ amica e il fidanzato, andava a Milano per vedere una mostra di Kandinski. È un attimo di silenzio carico di dolore. Un dolore misterioso. Vengono in mente le parole di don Giussani per la tragedia di Padova. Raccontano di Debora che si stava laureando e dopo poco si sarebbe sposata con Alessandro, andando a vivere a Giulianova. Che nel suo compito di segretaria regionale metteva una attenzione particolare, soprattutto alle persone. Sì, ma non era una da predicozzi, da sentimentalismi, al momento opportuno aveva la battuta pronta. Comunicava una passione che stava cominciando ad avere per la realtà tutta. Dallo svuotare i posacenere in sede, al compilare con precisione gli elenchi, nell’ insegnare alla nuova segretaria. Quel viaggio lo aveva intrapreso per un motivo preciso, non solo per amore dell’arte: poter stare vicino al fratello, fargli capire che lei gli voleva bene. Per lo stesso motivo l’estate scorsa, insieme ad Alessandro, lo aveva raggiunto in America per trascorrere con lui quindici giorni. Paolo, Andrea, Nicoletta parlano, raccontano dei primi momenti quando la notizia li aveva raggiunti, dello smarrimento, del viaggio all’ospedale di Faenza dove era avvenuto l’incidente, della telefonata a don Maurizio in pellegrinaggio in Terra Santa.

Loro raccontano la cosa più dolorosa, più umanamente inspiegabile che può accadere - la morte di una amica di soli 24 anni - eppure, eppure la letizia, dentro l’ilarità delle battute, che avevo percepito, all’inizio non è venuta meno. È una letizia certa di qualcosa che non ti viene mai tolta. Che persiste. Che passa in quei volti. Altrimenti sarebbero dei pazzi invasati, E invece sono normalissimi. Hanno solo incontrato Qualcuno in carne e ossa che dà significato.  


GABBIA DI PAZZI
Gli sguardi spesso vanno a don Maurizio, non per cercare conferme ai loro discorsi - anche loro di discorsi non ne fanno -. Ma come si fa ad un amico più grande. Per questo mi viene da chiedere: «Ma tu come sei capitato qua? Cosa hai "combinato"». «Io!? Niente. Ho obbedito solo a don Giussani. Sempre. Ho obbedito a ciò che aveva reso felice e affascinante la vita. Se penso che la prima volta che ho incontrato i ciellini  a Calcinate dove abitavo, nella bassa bergamasca, mi sembravano una gabbia di pazzi... Avevo diciotto anni, facevo l’ultimo anno delle superiori, tutta "colpa" di mia sorella che li frequentava...». Quegli amici non lasciano in pace, se li vede girare per casa, gli danno i passaggi in moto, stanno con lui. Nasce una simpatia nuova, inaspettata. Dopo due mesi Maurizio intuisce che è felice avendo dato un poco di sé, ma se dà tutto la felicità sarà per sempre, totale. Don Massimo Camisasca gli svela il nome di questo mutamento del cuore: verginità. Parola sconosciuta, sotto questo aspetto. Si fida e comincia la verifica vocazionale. Dopo un anno va da don Giussani e chiede che per lui diventi una forma definitiva. Ha deciso. La risposta inaspettata: «Ci sarebbe bisogno di uno che andasse in seminario a Viterbo, ma ti chiedo di aspettare un anno durante il quale permettimi di farti da padre spirituale». Così Maurizio ogni quindici giorni prende le ferie per andare a Milano a incontrarlo. Magari per soli cinque minuti. Non importa. «In quell’anno si è costruita la mia persona, in quel rapporto». Poi Viterbo, in seminario. Le difficoltà. Maurizio, dopo un anno, carica la macchina di tutte le sue cose con l’intenzione di andarsene. Lui era andato lì per il movimento, per costruire il movimento. Le parole di don Giussani: «Fai quello che vuoi, ricordati che per noi è importante. A me non interessa nulla del movimento, mi interessi tu. Vai per quindici giorni dalla Madonna di Caravaggio a chiedere il suo aiuto». È facile obbedire quando qualcuno ti dice che tiene a te, alla tua persona. Dieci anni a Viterbo tornando a casa solo a Natale e Pasqua e tutte le volte incontrare Giussani. Il diaconato. Forse adesso poteva tornare... No, il Vescovo gli chiede di fare il cappellano del carcere e poi il viceparroco in una parrocchia fuori città. Appena poteva, "scappava" da don Massimo a Roma, dove si era costituita la Fraternità San Carlo, non per chiedere conforto, per avere una conferma delle cose fatte, ma per andare al fondo della esperienza che aveva costituito fin dall’inizio la sua vocazione.

TRAMA DI RAPPORTI
Nell’89 il Vescovo di Chieti chiede che qualcuno del movimento segua gli universitari. Don Giussani lo propone a don Maurizio. È facile obbedire a chi vuole il tuo bene. «Mo’ ce lo siamo ritrovati qui, sto prete». «Da subito ci ha affascinato come stava con le persone. Nella quotidianità della vita di tutti i giorni. Non aveva il problema di costruire una struttura, di "fare" il movimento. Tutto quello che è fiorito in questi nove anni  è frutto di una trama di rapporti. Con tutti, dal giessino, all’adulto. È nata una comunità, un popolo». «Eh, va che non è uno pacato. Se una cosa non va, non va.  Nun ce sta! Di quelle litigate... che poi, di solito, si concludono gambe sotto il tavolo al ristorante». Sono le 4 del mattino quando mi salutano sulla porta di casa di Francesca e Marco dove ci eravamo trasferiti quando il proprietario del ristorante, verso l’1, ci aveva gentilmente invitato ad andarcene. «Ci vediamo domani, pranziamo con Alessandro e altre amiche di Debora». E così il giorno dopo insieme, ancora attorno a un tavolo a raccontarmi con emozione di quando Giussani era venuto a Chieti, invitato dal rettore dell’Università o di come tutti assieme, giessini, universitari e adulti si erano dati da fare a ristrutturare la sede. Parlano di Debora, del dolore dignitoso dei suoi genitori, di tutta le gente che era venuta ai funerali, di come questo fatto così tragico li ha ancora di più uniti. Mentre ci alziamo Alessandro mi dice: «Dovevamo sposarci entro l’anno. Per me Debora era eccezionale. Ma... guarda, io non accetto che il Signore ha voluto la sua morte, ma ha permesso che accadesse perché c’è un positivo, che devo solo scoprire. Il Mistero è Mistero, ma è familiare, non fa paura. È questa compagnia qua, questi volti, uno per uno. Altrimenti diventerei pazzo».

LETTERA DI DEBORA
Davanti al Volto del Mistero. Per sempre.
Carissimo Maurizio, dopo sette anni che uno è coinvolto in questa storia si può ancora ritrovare in mezzo a ottomila persone e sentirsi piccolo, piccolissimo, quasi incredulo, devastato da tanta grandezza. Questo sono stati gli Esercizi per me. Ero lì seduta e mi dicevo: cosa sta capitando? E soprattutto: possibile che stia capitando proprio a me? Possibile che mi dicano che queste gioie, queste angosce, queste domande, queste tempeste, questi sentimenti, queste cose "strane" che sento dentro e che pure, a volte, maledico, quell’uomo mi sta dicendo che sono il mio io, che io sono importante, che non sono un caso al mondo e che se manco io manca qualcosa! È successa davvero una cosa grande, non perché è grande in sé, ma perché riesce a rendere grande ciò che io vivo. È successo che uno mi ha detto: Dio ti ha fatto e ti ha fatto perché sei utile a Lui, perché ha bisogno che tu dica prima di tutto a te stesso e poi al mondo che è Lui e mi ha detto: non è così facile come ti sembra in questo momento perché tra il tuo agire e quello che desideri c’è di mezzo la carne (quella che va in putrefazione, diceva Cesana) e perciò devi avere pietà di te stessa. E puoi avere pietà perché Dio ti perdona. "Perché Dio, di fronte al tuo delitto, ti ama". Non penso che potrò più addormentarmi la sera senza pensare a questa frase. Quando sono entrata in facoltà questa mattina, guardando le persone sul corridoio, pensavo che loro non sapevano quello che mi era capitato e mi sembrava incredibile. Non è possibile che non sappiano quello che mi è successo, che non sappiano quello che è capitato al mondo. E capivo che non potevo mettermi in piedi sulla sedia e urlare a tutti che ero appena tornata dagli Esercizi di Rimini. E mi è venuta in mente quella frase del Gius che ci ha detto don Pino: "Fossi in te spierei tutte le circostanze in cui Cristo possa essere riconosciuto, fosse l’ultima cosa che fai nella vita". Questa sì che è un’avventura, lo è adesso e lo sarà oggi quando verrò in sede non a fare un servizio a Cl (lo scopo più nobile che riesco a pensare!), ma a fare un servizio al mondo, a partecipare al disegno di Dio al Mondo, perché io sono utile al mondo. Ieri sera, quando sono scesa dal pullman, c’era Alessandro che mi aspettava e subito dopo, a casa, c’era Michele. Sono le due persone a cui il mio cuore è dedito più che a tutte le altre. Sono le due persone che da sempre mi fanno capire che, diceva Baroncini, fare il mio dovere non mi basta, anzi mi rende triste. E me lo fanno capire con il semplice fatto di essere nella mia vita, me lo fanno capire perché di fronte a loro non riesco mai a dare delle risposte. Di fronte a loro o cedo alla "grande esitazione" o soffro, o divento gratuitamente e inaspettatamente capace di domandare: "Tu sei tutto, Cristo, concedimi di amarli perché questo il mio cuore desidera". Ti ricordi quando la settimana scorsa, a proposito di Alessandro, mi hai detto: "Paradossalmente sei tu che devi cambiare perché ora hai solo una pretesa etica verso la realtà. Da Alessandro vuoi che cambi il suo comportamento, ma non è questo il problema, tu devi cambiare, perché tu non sei libera di fronte a questa realtà". Era vero, ho capito subito che era vero. Ma mi restava la mia solita domanda: come faccio io a cambiare? Agli Esercizi mi è successo che in un attimo mi sono ritrovata con Augusta in camera (non la conoscevo prima degli Esercizi) a parlare delle cose più care che ho nella vita: Cristo, don Giussani, i miei amici. E poi, in pullman, ero con Gianluca che conosco da quattro anni, lo stesso la cui presenza non ha mai fatto differenza nella mia vita. E improvvisamente ci stavamo dicendo le cose più vere della vita. A un certo punto lui mi ha detto: "Vedi, io non ho coscienza di questo, ma ti rendi conto cosa sarebbe guardare gli amici, questa compagnia, consapevole che hai davanti Gesù Cristo!". Mi ha commosso: lo stava dicendo a me. Non so cosa è cambiato. Certo non eravamo lì impegnati a dirci delle cose per cambiare un rapporto! È successo "per caso" quando eravamo colmi della stessa presenza.
Con affetto, Debora, 15 dicembre 1997.

UOMINI COMMOSSI
Carissimo don Giussani, dopo aver letto sul libretto Comunione e Liberazione che Cristo ha bisogno di uomini commossi e non riverenti, non ho potuto più star ferma nel letto (sono le 23.45); "commosso" vuol dire "mosso con, insieme" e io mi sono per forza dovuta alzare e scriverti. Leggevo poco fa che il carisma è un dono dello Spirito Santo; io, ora, posso dire che il Signore ha voluto donarti il carisma perché io non fossi sola il giorno dell’incidente, il giorno più doloroso della mia vita, ed ora, a distanza di sei mesi, perché mio fratello non fosse solo, anche se lo è fisicamente, dato che è in America, perché la vita di mia sorella Debora (morta nell’incidente) avesse un senso. Io ora posso solo ringraziarti di aver detto di sì anni fa e che continui a dirlo ora e pregare che il Signore mi dia la forza da dir sì ora, domani e fra qualche settimana quando sarò di nuovo a scuola. (Lettera a Tracce novembre 1998 ) Valentina, Pescara