ENZO PICCININI
UN CUORE DIVERSO
Appunti da una conversazione con adulti di Milano 21 settembre 1996
Il mio nome è Enzo. Sono chirurgo universitario e ho quattro figli. Invitato qui, mi sono venuti due pensieri improvvisi che vorrei dirvi. Il primo è che ogni volta che sono invitato a parlare in pubblico della mia esperienza nel movimento provo una specie di ritegno e di pudore, che mi fa sempre essere indeciso se farlo o no. Non è facile, è questo quello che penso, parlare in pubblico di quel che si ama di più nella vita. Il movimento è tutto per me: è ciò che io amo e stimo come la cosa più importante e più vera per me. Ma, ed è la seconda cosa che mi viene in mente, ripensando a questi anni e a ciò che mi è successo vivendo questa storia, devo riconoscere innanzitutto che quel che sono l'ho interamente ricevuto. Tutto quel che ho, in termini di bellezza di esperienza, mi è stato dato e l'ho imparato; anzi, a dire il vero, il movimento è stato ed è per me letteralmente - letteralmente - la mia salvezza. Chissà dove sarei, se non avessi incontrato il movimento! Tanto è vero che, solo un po' di anni fa, non molti, se qualcuno mi avesse detto che sarei stato qui a dire queste cose, avrei detto che quello era un pazzo furioso. Ci sono due episodi indelebili nella mia vita. Il primo riguarda il lavoro. Nel tempo, in questi anni, ho maturato una competenza particolare nel mio campo. Sono stato in America a lungo, poi in Inghilterra, in Francia; sono tornato e ho potuto avere una unità mia, dove eseguo interventi particolari. Questo ha generato intorno a me un certo credito. Hanno cominciato a venire un po' da tutta Italia soprattutto casi difficili, spesso rifiutati da altri centri, qualche volta veri e propri viaggi della speranza. Mi ci sono sempre buttato con tutto quello che potevo fare, rischiando molto: erano tutti, o quasi, dicevo, casi ad alto rischio, e se la maggior parte andava bene, qualcuno andava anche male. Così, in quel periodo, ce n'era uno in particolare che non era andato bene e a cui ero legato anche affettivamente, perché riguardava il papà di miei amici. Era una cosa che mi aveva turbato, tanto che dormivo poco la notte. Per caso, ho potuto parlarne con don Giussani. Gli ho posto la questione. Lui mi ha guardato e, con un'improvvisa risposta, totalmente inaspettata da me, mi ha detto: «Enzo, ma come mai!? Tu ti comporti come se Cristo non ci fosse, come se tutto dipendesse dalle tue mani! Se farai così a lungo, non sarai più libero di fare quel che fai. Comunque, in ogni caso, vorrei riparlarne». Era l'ultima risposta che m'aspettavo, ma capivo che era giusta. Così, di lì a qualche giorno ci siamo ritrovati a parlarne. Gli ho ridetto la cosa, gli ho raccontato la vicenda, però non volevo importunarlo, anche perché erano già due volte che gliene parlavo. Così gli ho detto: «Guarda, però, che le cose stanno andando meglio; l'altro giorno ero un po' preso, ma le cose stanno andando meglio; sopra di me c'è una cappella, al quarto piano (io sono al terzo), e spesso alla mattina, prima di andare in sala operatoria, vado lì e dico una preghiera, e le cose sono più tranquille». Ha avuto una reazione, don Giussani, che mi ha colpito. Mi ha guardato di nuovo e mi ha detto: «Enzo, non è vera preghiera se non è offerta. Tu devi imparare ad offrire, tu non sai offrire! È questo che ti manca: quando sei lì e hai in mano quegli strumenti e devi decidere un indirizzo, di qua o di là, è questo che devi fare, perché se non farai così, diventerai come tutti. E il "come tutti" significa ritirare lo stipendio alla fine del mese e cercare di avere meno preoccupazioni possibili, per evitare le ferite che la realtà che hai può generare nella tua mente e nel tuo cuore». Aveva ragione. Io non so come avesse fatto, ma aveva ragione. Erano due mesi che dicevo ai miei due giovani assistenti: «Per favore, ragazzi, non facciamo più niente di queste cose, perché dobbiamo andare avanti in una certa strada e queste cose, ci mettono addosso problemi, non ci aiutano». Sì, offrire significa che la consistenza delle cose e della realtà - mi aveva spiegato poi don Giussani - è Cristo e, perciò, in ogni cosa che facciamo c'è la domandache Lui si riveli. E questo ci fa certi della risposta. Cristo è Dio, e perciò risponde sicuramente: come vuole Lui, ma risponde. Questo determina nel rapporto con la realtà una povertà per cui uno riconosce ciò che può fare e ciò che non può fare, e chiede quando non sa e non può. Si aderisce così alla realtà: più attenti ad ogni particolare ed estremamente realisti rispetto a quel che si può fare. Poi, così, si può rischiare, cioè si può affrontare la realtà comunque essa sia, certi che c'è un destino buono. Il fenomeno della certezza è l'intuizione che la vita ha il senso totale: è la certezza della presenza del Destino, Cristo. E alla luce di questa certezza io rischio e cammino, perché la certezza è al fondo delle cose e fa riprendere ogni giorno, dopo la gioia e la delusione. È una certezza - appunto - che non toglie la gioia e la delusione (ma non importa); e rischio, perché posso sbagliare o far giusto. Per questo la vita rimane una lotta, il cui fondo è però pieno di pace. Io posso lottare adesso, posso lottare perché sono certo di dove arriverò, perché il Destino già si è dato a me, mi ha raggiunto e abbracciato. Rimane dentro il segno del mondo e delle cose, perché nel modo di vivere questo segno io giochi interamente la mia libertà e la mia fedeltà. Ma c'è un secondo episodio che ha determinato la mia vita. È da un po' che sono impegnato nel movimento e la mia professione porta via sempre più tempo, insomma ho una vita piuttosto impegnata, piena. Intorno a me era un po' di tempo che sentivo dire: «Ma che vita fa quello lì? E la sua famiglia? Boh!». E io lasciavo sempre andare la cosa, non mi toccava più di tanto. Però, a lungo andare, mi è venuto il dubbio e ho incominciato a chiedermi anch'io: «Ma che vita faccio?». Così, un giorno, mentre lo accompagnavo da Cesena a Bologna per una giornata d'inizio anno del Clu, don Giussani mi chiede: «Come va?». «Eh - dico - non c'è male». «Come non c'è male?». «Ma qui mi dicono così, io non lo so, mi fanno venire dei dubbi anche a me», e gli dico tutta la vicenda. Dopo un po' di silenzio lui fa: «Senti, ma tu vuoi bene alla tua famiglia, ai tuoi figli?». «Sì». Cosa dovevo dire? Silenzio. «Senti, fammi un esempio». «Un esempio?». Io non so a voi, ma a me non vengono facili. Allora gli ho detto una cosa che mi è venuta in mente, che mi sembrava descrivesse quello che provavo. Gli ho detto che succede spesso che io - per la professione o per altro - arrivi a casa un po' tardi. Mia moglie dorme lasciando un po' aperte le porte delle stanze dei bambini per sentire quando piangono o se succede qualcosa. Così quando arrivo devo stare attento, accendere solo la luce dell'ingresso, perché se li sveglio sono guai. Allora accendo la luce e poi pian piano vado dentro. Attraverso la fessura della porta passa un filo di luce che illumina questi gomitoli, queste facce di bambini: è uno spettacolo che fa venire una tenerezza dentro... Io non so cosa provate voi, ma è una tenerezza tale che non si resiste. Allora apro, vado lì, faccio loro una carezza, do un bacio, qualcuno si sveglia: «Ciao, papà». «Sssttt! che se ti sente la mamma...». Allora sto lì così e mi sembra che questo... Insomma, gli voglio bene. Don Giussani sta ancora in silenzio, poi dice: «No, no, no, questo non è il modo di voler bene. Sai qual è il modo di voler bene? Che proprio in quel momento in cui quella tenerezza ti spinge a fare quel che fai, umanissimo, fai un passo indietro. Fallo davvero e chiediti: che ne sarà di loro? Questo è il modo di voler bene, perché è il senso del destino che definisce la persona, l'altro, la sua unicità e la sua oggettività: un uomo che non viva un momento con questo rispetto improvviso, con la sua donna o con i suoi figli, non ama la sua donna e i suoi figli». Più tardi avrei capito davvero questo accompagnandolo a Chieti, quando lo scorso maggio don Giussani ha tenuto la conferenza secondo me più straordinaria che io abbia mai ascoltato. Lì ho capito una cosa fantastica, che lui ha sottolineato come scoperta del «tu»: la scoperta del tu. «"Tu" significa un'altra cosa - ha detto a Chieti -, tu non sei me, perciò non posso usare di te e finalizzarti a me. Allora uno s'accorge di cosa vuol dire rispetto, adorazione, venerazione. Il Destino, l'Infinito, è questo "Tu" divino che permette questi "tu" umani. Perciò se io dico "tu" nel modo che abbiamo detto prima, è la potenza dell'umano che va al di là del fisico, del constatabile fisicamente; è una constatazione ed è un'esperienza totalizzante, in cui il fisico è una parte». Concludendo, quando c'è - lo capisco adesso molto chiaramente parlandone a voi - un'ipotesi positiva nella vita, il tempo, che per tutti è sinonimo di decadenza e di disfacimento, lavora in positivo. Quello che sono adesso è imparagonabile davvero a quel che ero un po' di anni fa, imparagonabile. E, perciò, con buona ragione, posso aspettarmi il miracolo di un cambiamento ancora maggiore. Ne vedremo delle belle! La fisica sostiene che l'orizzonte cambia variando il punto di osservazione. Se volessi trovare una metafora che descrive la mia vita, dovrei paragonarla ad una mongolfiera che si sta alzando dal suolo, e per questo l'orizzonte si allarga sempre più. Così ogni giorno che passa scopro aspetti della vita - come ad esempio la fedeltà, la pazienza, l'amicizia - che non avrei mai potuto immaginare. Il problema è uno solo (che è quello che chiedo sempre): che mi sia dato per sempre il coraggio di non sottrarmi più alla scia che l'incontro con il movimento ha lasciato nella mia vita e intorno a me.