ENZO PICCININI

Metodo di ricerca e criterio di valutazione
Catania, 13 ottobre 1997
La mia è un’esperienza eminentemente pratica; esperienza di un chirurgo, e quindi, non me ne vogliano i colleghi, di chi applica delle tecniche. Eppure, proprio perché è talmente pratica, risulta sconvolgente per come è implicata con la realtà. Cercherò di testimoniare ciò che ho ricevuto: una storia bella e affascinante che, dopo anni di giovinezza un po’ burrascosa, ho vissuto grazie all’esperienza cristiana. Parto dunque da ciò che ho imparato nel tempo, facendo i conti con quella realtà che tutti i giorni mi preme.Vorrei anzitutto dire cos' è la conoscenza. Essa è composta da due fattori: l'energia della nostra coscienza e la realtà; perciò è un incontro tra l’energia umana e una presenza. Siamo obbligati a prendere in considerazione entrambi questi fattori: l’energia umana, che sono io, che sei tu, e quella realtà con cui abbiamo sempre a che fare, che vediamo tutti i giorni, che ci si propone anche attraverso le circostanze più impensate. Li analizzeremo dapprima separatamente, e poi vedremo come possano interagire affinché la conoscenza sia vera, e non artificiosa. Innanzitutto, la realtà. E a riguardo dobbiamo evidenziare che la realtà non è mai affermata fino in fondo se non è affermato il suo significato. Un microfono, poniamo, non è affermato fino in fondo se non è affermato il suo significato; tant’è vero che senza il suo significato sarebbe solo un impedimento, che non mi consente di vedere la faccia di quelli che ho davanti. Ma se ha il suo significato può stare dove sta, e non dare nessun fastidio; il suo posto è giusto, cosi come è al posto giusto il tavolo su cui è collocato. Anche il tavolo sarebbe un impedimento per arrivare a chi ascolta se non avesse un suo significato; se ha il suo significato, è chiaro che è al suo posto, è possibile appoggiarvi i fogli e anche i gomiti. La realtà, lo ribadisco, non è mai affermata fino in fondo se non è affermato il suo significato; e questo implica un rapporto con la realtà del tutto particolare, almeno rispetto alla mentalità di oggi, in cui tutto quel che ho detto è censurato o volutamente dimenticato. Ma se quel che sostengo è vero, ci impegna con la realtà enormemente: essa non è solo quel che uno vede o sente; e portando con sé un significato, è risultato di qualcosa che non dipende da una certa interpretazione. E’ impressionante: non si può affermare niente senza riconoscere che ciò che si ha di fronte possiede un nesso con tutto quel che c’è. Magari uno non lo vede, non capisce qual è il significato, ma deve ammetterlo, è concreto come è concreto un microfono o un tavolo.Qual è allora il modo giusto di abbordare la realtà? Non intendo richiamare qui Cristo, la Madonna, i santi... Intendo dire: come si pone, come si mette in gioco un’umanità che ha come problema la realtà? Vorrei richiamare un episodio ben noto, l’episodio-chiave che ha permesso che ciò che ho detto diventasse una legge: “Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”. L’autore della frase è Alexis Carrel; ma io non riesco mai a dire qualcosa senza implicare la situazione da cui è sorta. Ebbene, Carrel, uno dei primi premi Nobel per la biologia, era un ateo convinto; fino a quando non accadde nella sua vita un avvenimento. Si trovava con altri tre amici atei a fare un viaggio a Lourdes, accompagnando dei malati; ma con l’unico scopo di dimostrare che tutto quello che veniva detto di Lourdes era una suggestione psicologica, convinto com’era che il miracolo di per sé non esiste, e che la Chiesa strumentalizza le suggestioni della gente. In treno, lui e i suoi amici discutono di questo; quando improvvisamente vengono chiamati perché una donna, già in condizioni gravissime, sta morendo. E’ un’ammalata giunta ormai all’ultimo stadio della tubercolosi addominale, e vedendola questi atei provano rabbia: come si può portare in treno fino a Lourdes una donna in quelle condizioni, che potrebbe morire tranquillamente a casa sua senza uno stress del genere? Carrel se a prende con la suora; la quale ammette che tutti avevano sconsigliato il viaggio, ma che la donna, in un momento di lucidità in cui era uscita dal coma, l’aveva pregata di portarla a Lourdes, come ultima speranza. E loro imprecano: ecco a cosa porta l’educazione della Chiesa! Ma mentre stanno per andar via, la donna. davanti ai loro occhi, guarisce. Nel giro di mezz’ora, inspiegabilmente, si risolve tutto: c’è un risveglio dal coma, e la pancia da peritonitica diventa assolutamente trattabile, come diciamo noi in termini tecnici. Ebbene, Carrel ha appena proclamato di fronte a tutti, ridendo: “Se costei guarisce, io mi converto”. E dopo quella guarigione si converte davvero; e inizia a dare alla sua vita un’impostazione del tutto diversa, tant’è vero che progetta un’opera sulla scia dei Pensieri di Pascal. Aveva pensato, Pascal, di realizzare un’apologia aperta dell’esistenza di Dio; ebbene, Carrel voleva dimostrare che l’esperienza cristiana è l’unica umanamente seria e capace di rispondere alle esigenze che ogni uomo ha; con lo scopo, lo diceva sempre a sua moglie, di sconfiggere ogni strumentalizzazione della Chiesa e della vita dei cristiani. Come Pascal, anche Carrel è morto prima di finire l’opera; ma i frammenti sono stati recuperati dalla moglie e uno di essi è appunto la frase che ho citato prima. Si tratta di un pensiero-guida del rapporto con la realtà; che non è appena qualcosa che tu avverti e senti, qualcosa insomma che finisce col tuo avvertirla, sentirla e misurarla, ma implica sempre un significato, in altri termini un destino. Anche se non lo vedi, questo destino esiste oggettivamente, più grande di te.
“Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”: è una di quelle frasi da non dimenticare più. Quando l’ ho scoperta, ho capito che non riguardava solo il mio mestiere di docente universitario, ma anche la casalinga che è a casa coi figli. E’ letteralmente cosi. Un atteggiamento diverso inficia il rapporto con la realtà. Insomma: il metodo, la strada per arrivare all’oggetto da conoscere, non è mai determinata dal soggetto, ma imposta dall’oggetto stesso. Ho davanti a me una bottiglia di vino bianco, diciamo un Tocai del Friuli, o anche un bianco francese, e voglio verificare se il vino è abboccato o secco; se, svitato il tappo, ci mettessi un dito, osservando “ecco, è secco”, voi avreste ragione di concludere che sono matto. Eppure io ho sentito il vino. Solo che ho sbagliato il metodo. Ho scelto io il metodo per sentire il vino, mentre bisogna obiettivamente berlo, dal momento che le papille gustative non sono nel dito. Ecco: è l’oggetto che impone il metodo di conoscenza. Immaginate il lavoro di ricerca che io svolgo: se mi permettessi di alterare i dati, cioè quello che in realtà c’è, per avere dei risultati come dico io, che ricerca sarebbe? Spesso, in tante parti del mondo, si è proceduto in questo modo; e oggi, tutti noi ne paghiamo ancora le conseguenze. 
Consideriamo ora il fatto cristiano. E’ eminentemente 1’interesse per i poveri? O è eminentemente raccogliersi in preghiera, studiare la Bibbia? Quando si pensa cosi, non è l’oggetto di conoscenza che impone il metodo per conoscerlo, ma il metodo viene imposto a esso arbitrariamente. L’avvenimento cristiano è Dio fatto uomo, che vive oggi come duemila anni fa. Allora tu puoi cominciare a discutere: è vero, non è vero, mi sembra strano, ma ci saranno davvero le prove? E questo è un atteggiamento corretto.
La realtà è qualcosa che è presente, un’inesorabile presenza, ultimamente non determinabile da quel che senti e pensi (“non mi va ...“). Qui andiamo contro l’era moderna. Non è da molto che è venuta da me una giovane coppia, marito e moglie. “Sappiamo che lei ha una grande esperienza educativa” “Ci provo” “E allora veniamo da lei, dopo esser stati da tanti” “Ah, grazie...” “Nessuno ha risolto la nostra questione, e siamo nei pasticci. Guardi, io e mia moglie ci siamo sposati da quattro, cinque anni e non sentiamo più niente. Non c’è più niente fra noi, non c’è più niente da tanto”. E io: “Scusatemi, ma... avete dei figli?” “Si, abbiamo un figlio” “E non c’è più niente fra voi? Ma siete dei delinquenti! Per il solo fatto che non sentite più niente non ci sarebbe più niente?” Se la legge della realtà è quello che senti, pensi e che ti va, anche quel che c’è lo censuri, per non farci i conti! Perché farci i conti comporta una responsabilità, e quindi implica che la voglia, la propria misura, quel che si sente e che si pensa non è più la legge della vita.
Immagina: alzarti al mattino e sentir la tua voglia nella legge della vita: è una bella battaglia, però che razza di risultato si ha! Permettetemi solo di accennarvi cosa vuole dire il contrario di una impostazione come questa. Senza il riconoscimento di una realtà presente, che si impone per il significato che ha, non è più serio niente, tutto tende a diventare pretesto della propria immaginazione; e anche questa immaginazione è decaduta, perché senza opinione non c’è reattività, una reattività a livello di pensiero e di azione, e tutto diventa puro spunto all’opinabile e all’istintivo, vale a dire ancora una volta all’effimero. La conseguenza è che non siamo più educati alla responsabilità, non rispondiamo più a niente e a nessuno. Mi piacerebbe venire da ciascuno di voi, e chiedere: “Scusami, stamattina quando ti sei svegliato a che cosa hai risposto?” Quante volte dovremmo registrare: “Al nulla”. Eppure è decisivo a chi o a che cosa tu risponda; decide di tutte te cose, dal “ciao” che dici a tua madre che ti ha preparato il caffellatte, a come vivi tutta la giornata. Oggi vige una mancanza di educazione alla responsabilità. Mi ha sempre colpito l’episodio di don Gnocchi che, durante la guerra, si reca in un ospedaletto per mutilati, e trova un bambino di dodici anni, che aveva subito una decina di operazioni: una maschera. Preso da quella maschera di dolore, il prete si china e chiede: “Scusami, ma quando ti fanno un’operazione e ti fanno provare ancora dolore, tu a che cosa pensi?” E il bambino o guarda e risponde: “A niente”.
Non rispondere più a niente e a nessuno di quel che si fa e si è, vuol dire solitudine. Quello che aggredisce il cuore di noi tutti, quando non abbiamo più rapporto con la realtà, è proprio l’esperienza della solitudine. E una conseguenza della solitudine è la noia. Mi vengono in mente certe domeniche pomeriggio, quand’ero ragazzo: i miei mi costringevano a stare a casa e non sapevo cosa fare: noia totale. Anche l’uomo più mite, ha detto Pasolini, ha sangue che si annera e scorati disgusti, una “sperduta violenza” degli “affetti veri”. Quando non si risponde più a niente e a nessuno, subentra la sperduta violenza degli affetti veri: una instabilità della vita, che è poi l’immagine della giovinezza che si vive adesso, l’immagine di quella che sarebbe la mia stessa giovinezza, se non avessi scoperto ciò che tento di comunicarvi.
Nel fatto cristiano, la presenza è diventata un tu per tu permanente. Prima dell’incontro cristiano, soffrivo una instabilità tale che poteva esserci tutto e non esserci niente, potevo fare qualunque cosa, magari andare anche a Lourdes. In una lettera, una ragazza ha scritto:‘Sono ubriaca di risate e di parole, di gesti inventati costruiti da molta gente per riempire col rumore questo terribile silenzio, sensazioni nuove eppure stanche come i miei occhi, nuovi volti mascherati, nuovi giorni, ma il risveglio, è sempre uguale. Da tempo ho lasciato tutto al caso. a pochi momenti, da quando non assaporo più la dolcezza e la bellezza, la fedeltà, l’incoscienza, il desiderio, l’incoerenza di un per sempre; da quando non tendo le mie mani vuote, e non chiedo, e ogni soffio di vento mi porta via lontano, con decisioni che non durano più di un respiro”. Senza nessi, senza un prima, senza un dopo, tutto è bruciato via nell’attimo: “Quanta impazienza e quanta fretta in questo vivere, in questo lasciar passare il tempo senza afferrarne neppure un momento da trattenere, per avere più illusione che sia stato riempito. Mi è rimasta la cenere dei giorni passati, e non ho il coraggio di niente, non so amare, non avrei mai il coraggio di mettere al mondo un figlio, di rischiare la vita per qualcosa. Ma vigliacchi così si diventa”. Dal momento che in noi c’è invece il desiderio di queste cose, "vigliacchi cosi si diventa". Devi costruirti arbitrariamente un rapporto con la realtà in cui ciò che senti è decisivo, è il metodo da te scelto. “Vorrei fuggire mille volte at giorno, non so da che parte guardare senza che gli occhi mi si riempiano di lacrime, lacrime di vuoto. Come quando il vento colpisce gli occhi e li fa piangere”. E’ impressionante: “Fuori dalla realtà, dentro 1’assurdo, per sfuggire il dolore, il silenzio, la morte; negli stessi inutili gesti, nelle stesse inutili parole, vivere l’amarezza del non senso, l’incoscienza dei miei istinti; e nascondermi dietro una maschera penosa e ridicola per non sentirlo chiamare, per non sentirlo gridare forte, il mio nome. Fino a quando questo vagabondare senza sosta? Smarrita come un animale braccato, inseguita da volti, da voci, da verità che chiedono di lottare contro il mulino a vento di questa società”. Spero che se c’è qualcuno che ha questi sentimenti, si chieda quale ne è la radice. Un’assenza della responsabilità, una instabilità e anche un’assenza di pensiero, perché il pensiero è la coscienza della realtà.
Diceva san Paolo che la gente svampisce nei propri arzigogoli (“evanuerunt in cogitationibus suis”), per cui il rapporto con la realtà diventa quel dramma che abbiamo visto. Del resto, siamo tutti un po' fuori, un po’ out, come si usa dire, perché il rapporto con la realtà non ha nessun legame e durata, nessuna possibilità di incidenza, è sentimentale, vale per quello che sento, per quel che mi va, che mi piace. Come quell’ingegnere con un po' di soldi da investire, che si reca in una valle di montagna, e si accorge di un posticino fantastico, con un laghetto. “Oh, qui costruisco la villetta per la mia vecchiaia”; e cosi elabora un progettino, gli operai cominciano a lavorare, sono poste le fondamenta... Ma dopo una settimana, l’ingegnere va per caso un po’ più su, e trova un’altra valletta, che oltre al laghetto ha anche una pineta; e allora smonta tutto il cantiere, e nella nuova valletta incomincia di nuovo col disegno, prende le misure, tira su i muretti, è già al primo piano... La settimana successiva, però, camminando lungo un fiumiciattolo, trova un altro posto straordinario, ci sono pure le trote che saltano, e allora di nuovo cancella tutto e decide di costruirsi la villetta lì. Sta costruendo qualcosa. questo ingegnere? No, riempie la valle di ruderi. E’ questo il rapporto col reale se non c’è più nessuna responsabilità: un gioco. E il gioco non ha futuro, non produce cultura.
Se la conoscenza è un’energia umana che impatta un oggetto, un fatto, una cosa presente, allora bisogna dire che la realtà emerge in quel fenomeno che si chiama esperienza. Diciamo tutti “ho fatto una bella esperienza”, ma quando e come si può veramente parlare di esperienza? Solo quando, facendo quel che facciamo, ci accorgiamo di crescere. In altri termini, esperienza è qualsiasi modificazione dell’io nel suo impatto con la realtà: il reale provoca l’io, lo problematizza, e l’io, nel rispondere a questa provocazione si modifica. Ma proviamo ad andare per gradi: è chiaro che, impattando la realtà, l’energia umana che io sono, che tu sei, prova qualcosa, una simpatia o un’avversione: “è carina quella ragazza, è indisponente, è capace..”. Ma esperienza, evidentemente, non significa solo provare tante cose: questo potrebbe non comportare nessuna crescita, e anzi, se non succede qualcosa d’altro, le tante cose provate rimangono come un libro da raccontare con nostalgia, ma non costituiscono un’esperienza che ha fatto crescere una personalità. 
Forse è meglio che vi narri un episodio personale. Io ho una sorella in clausura. Ho combattuto a lungo perché non andasse, ho combattuto davvero: era la sorella che forse amavo di più. Non vi è mai successo di avere una sorella a cui vi affezionate moltissimo, a cui dite tutto? Cosi è stato con mia sorella, eravamo molto legati. Lei era proprio carina e io la portavo sempre a ballare con me, perché facevo bella figura; lei lo capiva, però si prestava lo stesso. Quando ha deciso di andare in clausura è stato un dramma per me, avevo un’avversità totale per questa sua decisione; nonostante questo, lei ha voluto che l’accompagnassi a Vitorchiano. Mi ricordo che ho fatto di tutto per non farla andare, sono arrivato a dirle: “io ti accompagno, però stai con me cinque giorni”; e l’ ho portata nei posti più belli del mondo, e alla fine, prima di arrivare a Vitorchiano, sono rimasto persino senza benzina. Quando poi sono arrivato lì... Adesso il rito è un po' diverso, ma allora veniva fuori la madre badessa, avvolgeva la postulante col manto e se la portava dentro; da quel momento in poi la vedevi solo dalla grata. E io, che pure a quei tempi facevo il duro, mi sono messo a piangere. Allora Madre Cristiana mi ha detto: “Ma cosa fai, piangi? Ma come, un uomo come te!” E io, spero che nessuno si offenda, ho risposto: “Senta, Madre Cristiana, lei deve andare a quel paese”. Quando poi è tornata mia sorella a salutarmi, mi ha dato un biglietto: “Sei un bel tipo! Madre Cristiana”. Io ero convinto che mia sorella fosse tanto vivace da non essere fatta per la clausura: cambiava spesso uomo, usava il moroso solo per ballare... Insomma, ero sicuro che in clausura diventasse matta. Pensate alla regola: al suono di una campana (suona sempre quella stramaledetta campana), si deve lasciar tutto e andare, qualunque cosa si stia facendo; e c’è la “parola essenziale”, non si può parlare come si vuole.... Cosi, quando sono andato via le ho detto: “Guarda Giovanna -adesso si chiama suor Chiara -, io non verrò mai più qui, se non per riprenderti”. Comunque, di lì a tre anni son tornato, immaginate l’emozione... E ho dovuto scoprire che era più aggiornata, più dentro la vita, più immediatamente consona a quello che io stesso avevo a cuore. Ricordate quell’intervista a una suora di clausura che è stata diffusa su tutti i giornali? Si trattava di una ragazza entrata in clausura a sedici o diciassette anni (adesso non si entra più a quell’età), e le sono state fatte domande anche scabrose, ma lei ha risposto dimostrando una conoscenza dell’attualità che ha sorpreso tutti. 
Ecco: esperienza non vuol dire provare qualche cosa, ma esige che il provare, che comunque c’ è, sia confrontato con un criterio ultimo del reale. Affermare che questo foglio è bianco vuol dire paragonarlo con il criterio del bianco, criterio che è mio, perciò sono assolutamente sicuro che il foglio è bianco. La sensazione che provo guardandolo non è ancora esperienza se non arrivo ad affermare: “Ecco, è cosi”. Se quel che si prova non è giudicato, non diventa mai esperienza. E giudicare vuol dire paragonare con un criterio ultimo. Ma questo criterio o è in noi, oppure, se è fuori di noi, è alienante. E qual è il criterio che abbiamo in noi? Io, che ho girato mezzo mondo, ho visto fenotipi umani veramente diversi, dal biondo al moro, dall’incasinato all’ordinatissimo ed efficiente; ma tutti, dall’Europa all’America, dal sud al nord, quando devono definire la parola amore dicono la stessa cosa. Ho guardato i biglietti di auguri del sud America e del nord America, del poveraccio della favela come dell' imprenditore di Manhattan: uguali. C’è qualcosa allora che abbiamo in comune, e che comunque emerge di fronte alla realtà. Ancora: lo sai anche tu, amico mio o amica mia, che quando qualcuno fa violenza su di te e ti impedisce di respirare liberamente, tu lo avverti. Altro è avere le forze per reagire, però lo avvertiamo tutti. Insomma, c’è qualcosa dentro di noi che quasi senza volerlo avverte la realtà e la paragona con sé. Questo qualcosa è un criterio che ci identifica; e che consiste in un’esigenza di vero, di bello, di giusto, di amare ed essere amati. Sono quattro categorie: vi sfido a trovare qualcosa delta vostra vita, da quando siete nati fino ad ora, anzi fino alla morte, che stia fuori da queste categorie. Sinteticamente è un’esigenza di felicità: tutto abbiamo fatto e facciamo per questo. Nella Bibbia si parla di “cuore”. Ebbene, giudicare quel che succede e quel che si prova vuol dire paragonarlo con questo “cuore”, con l’insieme di esigenze ed evidenze originali con cui si è lanciati di fronte alla realtà: bello, vero e giusto è ciò che corrisponde o rispetta questa esigenza profonda. Esser coscienti del criterio che si porta con sé, e giocarlo fino in fondo in quel che si fa: questa è esperienza. 
E non c’è alienazione, perché quel criterio lo hai dentro, nasce con te; anche il bambino che chiede perché (e comincia a chiederlo appena ha la possibilità di mettere assieme una parola), è esigenza di vero, di bello, di giusto, di amare ed essere amato. E creperemo chiedendo perché! C’è un volto che ci caratterizza dentro, come il volto che abbiamo fuori; io ho gli occhi neri, tu li hai chiari, lei ha i capelli biondi, ma c’è un volto dentro che caratterizza il tipo umano, qualunque latitudine o longitudine e cultura abbia. Nasce con noi, c’è fin dall’origine, e ci accompagnerà sino alla fine, insomma è strutturale. Ma è indispensabile metterlo a tema, e farlo reagire interamente nel paragone con le cose.
Oggi tutto è diventato un po' troppo ordinato per uno come me. Un giorno sono andato a Bologna, in università, dove tradizionalmente le cose sono più incasinate; e invece era proprio tutto ordinato, persino i motorini avevano il loro spazietto... Per qualcuno è più bello cosi. E vanno tutti a lezione, tutti prendono appunti, se saltano una lezione è addirittura un dramma. Ma è come l’ultimo dovere senza immaginazione! Studiare, invece, significa pensare, inesorabilmente pensare, e cioè paragonare te stesso con quello che hai di fronte; una riga di un testo è una proposta alla tua vita, amico mio. Che tu lo lasci passare, questo è un dramma! Non fai esperienza, sei un alienato. Tutti studiano di più, ma è il gioco del proprio cuore che deve intervenire. Altrimenti ti conducono dove tu non vuoi... e dopo non ti lamentare! Dove sono io, finalmente, in quel che faccio, dov’è l’unità della persona? E’ nel cuore. Vorrei fare un grande invito: mettere il cuore in quel che si fa. Questa è la legge che internamente dobbiamo avere, con gli amici,  con la donna, o la moglie. Mettere il cuore in quel che si fa sarebbe già un altolà a tutto ciò che vi è di arbitrario nelle proprie abitudini. Perché il cuore esige un orizzonte che è più grande della voglia e dell’immaginazione dei più. E mettere il cuore in quel che si fa esalta l’io; il che vale per la casalinga che deve stare a casa a pulire il proprio bambino, come per il presidente della repubblica. Ciò che conta è l’osservazione dell’oggetto e mettere il cuore in quel che si fa. Il cuore: l’impeto con cui ogni essere umano si protende verso la realtà, cercando di plasmarla a partire da un’immagine ideale e dalla spina che ha dentro.
Detto in questo modo, però, potrebbe significare che ciascuno è legge a se stesso: basti tu col tuo cuore, e allora tot capita tot sententiae. Ma non è cosi, perché quelle evidenze ed esigenze sono innanzitutto una sorpresa che ti trovi dentro, e che ci accomuna tutti. Quello è il volto vero di ogni persona ed è per questo che siamo attenti alle conquiste e ai traguardi di ciascuno e interessati al dialogo con chiunque. E guardiamo con simpatia anche il passato, e andiamo a verificare come Omero sentiva le cose, per essere sicuri che, allora come adesso, contava il gioco di quel volto segreto (ma definitivo e oggettivo) con la realtà; e valutiamo come gli antichi erano maturati in questo paragone. Ci interessa tutto! Tutto quello che è maturato in una reale esperienza.
Il rapporto corretto con la realtà è in definitiva una domanda, una posizione di domanda. Anni fa, guardavo attonito certi manifesti affissi in università, con su scritto: “Prega chi è più realista”. Allora io ero dall’altra parte... Eppure, è la domanda che colloca in una posizione di “disponibilità a”, dove la realtà può venire avanti cosi come è, ed essere osservata e ospitata. Che Cristo abbia detto che bisogna pregare sempre non è una cosa da preti o da suore ma è la legge d’amore di me che sono universitario, di me che vado in giro a ballare, come di chi lavora in casa. Non ha sbagliato quell’uomo a dircelo, sbagliamo noi se non lo seguiamo. Ma puoi volere bene ad una persona senza metterti in una posizione di domanda, puoi aver gusto alle cose o alla vita senza una domanda? Tutto dipenderebbe da quel che pensi, che senti...
Ma per avere questa posizione bisogna andare controcorrente. Tutto il mondo collabora ad un’altra posizione, che è quella contraria. Quel che pensi e che senti sarebbe la tua personalità... Quando, nell’ 86, sono andato per la prima volta negli Stati Uniti, ad Harvard, ho notato con meraviglia che c’era una facoltà universitaria chiamata “Scienze della comunicazione”, con materie stranissime, a me sconosciute: tecnica del linguaggio, computeristica, studio dell’immagine, psicologia di massa, e cosi via. E la frequentava tantissima gente. Dopo due o tre anni, anche a Bologna hanno aperto “Scienze della comunicazione”. Il nostro maggior esperto di comunicazione è Umberto Eco; tanto è vero che è ben inserito nel grande giro della pubblicità. E oggi la pubblicità è martellante. Per fare un esempio: mi trovavo negli Stati Uniti quando è uscito il film Jurassic Park. Gli americani sono terrificanti quando devono lanciare un prodotto: dovunque andavi t’imbattevi in Jurassic Park, in mezzo a tutte le piazze c’era Jurassic Park, in ogni bar, in ogni locale pubblico campeggiava il mostriciattolo, prendevi il treno o la metropolitana e lo trovavi anche lì, accendevi la televisione ed ecco un dibattito su Jurassic Park. Un giovane amico americano mi ha confessato: “Io voglio andarci a vedere questo film, lo so che è una stupidaggine, ma se non ci vado sto male, ne parlano tutti”. E cosi siamo andati a vederlo insieme, una domenica mattina. alle dieci e mezzo, dopo aver prenotato tre giorni prima. E’ uscito anche da noi questo film; non ha avuto un martellamento simile, ma non gli è mancata la sua brava pubblicità. Ebbene, un anno dopo, ho preso la videocassetta e ho provato a rivederlo: è un film che non sta in piedi, nemmeno se tirano i quattro venti. Eppure, quando è uscito, tutti abbiamo detto: “Non c’è trama, però che effetti speciali!” Era esattamente quello che suggeriva la pubblicità, lo vendeva cosi. Ed è lo stesso per il “Mulino Bianco”: tutti a casa abbiamo la scodella, ma non è mica vero che siano i biscotti migliori. E’ che il “Mulino Bianco” si avvale di pubblicità accuratissima, che è stata studiata da una delle migliori équipes del mondo: c’è dentro lo psichiatra, il tecnico del suono, il tecnico dell’immagine. Nella pubblicità è ormai tutto studiatissimo, secondo le tecniche della comunicazione, e soprattutto le tecniche dell’immagine. L’immagine, nel tempo, determina incredibili cambiamenti. E si capisce: essa coinvolge un aspetto fisiologico a cui nessuno può sfuggire, poiché viene inesorabilmente registrata, e così determina un condizionamento. Appena l’occhio si apre registra l’immagine, e immediatamente, in una frazione infinitesima di secondo, essa viene inviata al centro visivo che a sua volta informa la corteccia. La corteccia poi informa subito tutto il corpo umano, per cui il soggetto, lo voglia o  no, reagisce per come quell’immagine è stata fatta. Non è possibile dire: questo stimolo lo accolgo, quest’altro no; perché entra tutto. E’ impressionante, vero? Ci dominano in questo modo; e noi che siamo cosi bravi, e abbiamo tanti pensieri, e siamo tutti con la testa sulle spalle, non ne siamo fuori. 
Pensate alla questione delle immagini subliminali, inventate dai giapponesi. In certi programmi cinematografici o televisivi, nel momento in cui la tensione, l’attenzione è al massimo, si fa passare un fotogramma che la coscienza non avverte ma l’occhio registra. E inesorabilmente si è portati a fare quello che l’immagine detta. Le immagini subliminali sono state proibite. Ma non siamo in grado di controllare se vengano inserite o no... Io ho una figlia che mi accusa sempre di esagerare. Ebbene, una sera, sapendo che in televisione ci sarebbe stato un esperimento di immagini subliminali, le ho proposto di rimanere un po’ con me, a guardare un programma interessante. Lei un po' si ribella, ma alla fine decide di aspettare. Si trattava di uno spettacolo di danza, che prendeva anche molto. Ad un certo punto lei mi fa: “Ma devo restare ancora qui a vedere questa roba? Sono le due e mezza! E poi ho anche sete, voglio andare a bere” E io: “Aspetta, stai ancora un altro poco”. Ritorna a sedersi e improvvisamente fanno vedere l’immagine subliminale che prima avevano fatto passare. Mia figlia è sbiancata: era l’immagine di uno che beveva e a lei era venuta sete! Capite il perché di certi cambiamenti repentini di moda? E proprio dal Giappone proviene la maggior parte dei giochi al computer su cui i ragazzini stanno attaccati per ore; io non lo so se ci sono immagini subliminali, però il dubbio mi viene. Lo vogliamo o no, siamo condizionati: è tale il potere della mentalità dominante, che in qualche modo siamo costretti a subirla, altrimenti dovremmo chiudere gli occhi e non vivere più. Allora il problema è che l’atteggiamento che prima raccomandavo sia continuamente riconquistato. Non basta affermarlo una volta, è necessario recuperarlo giorno per giorno, attimo per attimo. E’ come un lavoro. Se lo evitiamo, se non ci aiutiamo, siamo meno amici fra noi, e meno amici della realtà e del mondo.