ENZO PICCININI
Testimonianza di del 12 dicembre 1998 agli esercizi del CLU davanti ad ottomila studenti.
Tu sol pensando o ideal, sei vero
Nella semplicità del mio cuore lietamente Ti ho dato tutto
Io sono chirurgo all'università di Bologna.Tutte le volte che mi chiedono
di parlare della mia esperienza, il primo sentimento che ho è quello di tirarmi
indietro perché, non so voi cosa ne pensiate, è difficile parlare in pubblico
senza barare sulle cose che si amano di più. E questa vita è la cosa che io
amo di più in assoluto.
Perciò ho come una specie di timore, di pudore, perché
il movimento, per me, letteralmente è stato, ed è, [letteralmente] la mia
salvezza. Io non so dove sarei senza il movimento. Soprattutto, se penso a un
po' di anni fa, sarebbe stato assurdo anche solo pensare, avrei dato del pazzo a
chiunque m'avesse detto che sarei stato qui a dirvi le cose che vi dirò, perché
è stata una cosa che è entrata dentro pian piano e mi ha cambiato
inaspettatamente.
Un'altra cosa, però, prima ancora, è che, proprio per quel che
vi ho detto, mi è molto chiaro che tutto quel che sono io l' ho avuto, mi è
stato dato; perciò è una gratitudine a cui non posso sottrarmi: quando gli
amici mi chiedono un sacrificio per il movimento, lo faccio volentieri.
Quando ho
cominciato la mia carriera universitaria (la mia professione, diciamo, perché
non era ancora chiaro), avevo finito la facoltà di Medicina e dovevo cercare un
punto di riferimento per andare avanti
professionalmente, un maestro. Io ero interessato alla chirurgia, ma non avevo,
allora, davanti della gente del movimento o degli amici stretti con cui poter
dialogare su questo; perciò ho fatto la cosa più normale al mondo: ho girato
tutti i chirurghi che c'erano in università e ho scelto quello che
immediatamente mi corrispondeva di più. Ho scelto quello che sentivo che era
quello che diceva: era un uomo che era quello che diceva, e mi interessava una
cosa così; mi aveva veramente molto colpito per questa sua posizione intera,
umanamente intera. Cosi gli sono andato dietro, ma come gli va dietro un ragazzo
di quell'età (penso a voi); gli ero affezionatissimo, guardavo come si muoveva,
quello che faceva, come ripeteva le cose, in sala operatoria stavo attento perfino ai minimi particolari le mosse, ecc.; mi ricordo che aveva un tic e
l'avevo preso anch'io.
Allora non eravamo una grande, ma una piccola Comunità,
e io invitavo sempre in comunità anche lui, quando facevamo un'assemblea, con
l'idea che poi non sarebbe mai venuto, ma lo facevo lo stesso... mi sarebbe
piaciuto. Così un giorno me lo sono trovato in assemblea. Ora, potete immaginare
il timore e il tremore che avevo:era un rispetto e una venerazione, insomma,
come uno di fronte a un maestro che stima fino in fondo. Me lo sono trovato lì e
potete immaginare questi 30-40 che eravamo, al massimo, ragazzi tutti giovani e
questo tipo con la testa pelata che emergeva, con una faccia da svizzero: era
una caratteristica sua che non ha mai perso. Avete mai visto il telegiornale
svizzero? Dicono che è una festa o che tutto è crollato con la stessa faccia,
uguale. E lui era proprio così. Io ero lì tutto fermo, con un italiano perfetto,
cercavo le parole, nessuna parolaccia, e tenevo l'occhio sempre su di lui. Mi
entusiasmavo, e lui "svizzero"; io continuavo, e lui
"svizzero". Arrivo alla fine, lui si alza e va via: sempre stessa
espressione. Do gli avvisi velocemente, lo blocco sulla porta e con uno stato
d'animo che potete immaginare, gli dico: «Professore, come è andata?».
Lui mi guarda (svizzero) e dice: «Piccinini, queste sono cose da ragazzi:
sono belle, sono vere, ma sono da ragazzi! Vanno bene per voi, per te, perché
non sai cos' è la vita. Io ho avuto dei compromessi, la mia vita è stata
difficile, grandi fatiche, anche dei disastri. Queste sono cose che fanno i
ragazzi, è un entusiasmo che hanno i ragazzi». Beh, ragazzi, m'è crollato un mito e m'è scomparso il tic. Perché
la
consapevolezza che mi è venuta chiara è che una cosa è riconosciuta vera
perché corrisponde e rimane per sempre cosi, anche perché ciò che riconosce
il vero è come un detector, qualcosa che abbiamo dentro e che ci caratterizza,
ed è questa esigenza - che è stata detta anche oggi - di vero, di bello, di
giusto, di amare e di essere riamati, che chiamiamo cuore. Questa cosa è
strutturale e non può essere messa tra parentesi perché la situazione è difficile o perché
le cose non tornano o perché c'è la vecchiaia. E' strutturale ed è il punto che ci caratterizza e che ci fa riconoscere le cose
vere che rimangono per sempre, e non è un problema di età, e non è un problema
di circostanza.
Da quel momento ho capito che il problema era uno solo: che
l'unità della mia persona (perché in ballo c'era quello, anche rispetto alle
sue osservazioni), l'unità della mia persona era individuata da quel fattore che
avevo dentro e che mi accompagnava come mi aveva accompagnato da ragazzo quando
ho incominciato a giocare a calcio, fino all'università, fino ad adesso. Era
qualcosa che mi caratterizzava: un' esigenza di felicità che nessuna cosa
avrebbe potuto cancellare, in qualche modo sarebbe venuta fuori, sempre, non
fosse altro che come amarezza. Avevo capito questo, e ho capito da allora che
l'unità della persona comincia dal fatto che uno mette il cuore in quel che fa,
e questo - credete a me - vale per chi come me ha a che fare con situazioni
drammatiche (che poi vi dirò), ma vale anche per chi è davanti al computer,
come per quella che va a fare la spesa. come per quella che pulisce le scale: è
uguale. Mettere il cuore in quel che si fa, significa mettere se stessi, e
mettere il cuore significa giocare quell'esigenza di felicità che è indomabile
perché è strutturale in noi.
Ma la vita di lì a poco si sarebbe complicata e ho
fatto anch'io esperienza, come l' ha fatta lui, delle situazioni che descriveva.
Cosi ho dovuto cambiare città, ho cambiato situazione: sono andato in una Divisione Chirurgica
più grande, dove ero
considerato un intruso, e perciò evidentemente, immediatamente, mors tua vita
mea, perciò uno sbaglio era la festa per gli altri, ero sottoposto tutti i
giorni a un controllo e a una tensione che era impressionante. E poi la mia
famiglia era cresciuta: nel frattempo, ridendo e scherzando, avevo fatto quattro
figli. Ed era un problema serio perché non avevo i soldi, e i miei continuavano
a darmi i soldi. Era un po' un' umiliazione. Poi, alla fine, gliel' ho detto, e
allora mi davano magari il formaggio o il vestito, per far vedere che non mi
davano i soldi. E poi c'era l'impegno con il movimento. Ero diventato, tout
court, responsabile della comunità più grossa del Clu in Italia, a Bologna, e
quindi c'era tutto un insieme di questioni. E lì ho capito che, di nuovo, l'unità
della persona non poteva essere un ricercato equilibrismo tra le attività, le
questioni, le cose da fare, perché questo non poteva essere, tanto più che non
ci si riusciva. Il tempo, la disponibilità, il lavoro, la famiglia: non poteva
essere così, perché mettere il cuore in quello che si fa non poteva essere
salvare capra e cavoli. Non poteva essere: era una totalità, una totalità
anche dentro le circostanze che non potevano tornare immediatamente o non potevo
mettere insieme io.
Cosi ho capito che si può mettere il cuore in quello che
si fa se si è di fronte a qualcosa di più grande di sé. Ci deve essere
qualcosa di più grande di sé: quello che in Scuola di Comunità chiamiamo
destino. Questo poteva aiutarmi in ogni situazione a mettere il cuore: qualcosa
di più grande di me, più grande della mia capacità. Ogni passo della vita
(l'andare in famiglia piuttosto che andare a fare l'assemblea con gli
universitari, o andare al mattino in ospedale) è un cammino verso il destino,
sempre, ogni passo è questo, è la risposta al destino, è l'impegno col
destino.
Ma non basta: non regge nemmeno così. E avrei dovuto capirlo dopo. Perché
nel frattempo il mio impegno universitario era cresciuto, la mia capacità anche
professionale aveva avuto un incremento, e perciò cominciavo a diventare un punto di riferimento in giro, blando ancora,
ma insomma incominciava ad essere così. E perciò mi arrivavano anche casi
complicati particolari, e cominciavo a vedere sulla mia pelle che le cose
andavano bene o andavano male, non era sempre una riuscita.
Così, mi
ricordo ancora, era successo, appunto, con il papà di alcuni di noi, che,
operato, si è complicato, l' ho ri-operato, complicato, l' ho ri-operato, siamo
andati avanti quasi un anno, poi è morto. E la cosa non mi ha mai lasciato
tranquillo, mai. Così un giorno - eravamo ad una delle prime Responsabili a
Milano, eravamo ancora pochi con Giussani - sono venuto fuori dalla
Responsabili, ero lì in corridoio, Giussani si avvicina e dice: «Come
va?». Io dico: "Non c'è male". Lui si ferma: "Come, non c'è
male? Cosa c'è?." Dico: "No, stupidaggini. Dopo quello che abbiamo detto
prima lì all'incontro, queste sono stupidaggini. Dai, andiamo, non importa».
Lui si è fermato di colpo, era stanchissimo, si è fermato di colpo (in
corridoio - eh! - passava la gente): "Ma scusami, Enzo, con tutte le
stupidaggini che ci diciamo, quando c'è una cosa che conta davvero non ne
parliamo?". Io rimango inchiodato e dico: "Scusami, guarda, non volevo,
ma m e successo questo e mi do un po' di colpe, insomma, non riesco più a
dormire. Cioè, dormo un'ora, poi mi viene in mente questa cosa. E anche mia
moglie è preoccupata, perché dopo un'ora che dormo mi alzo su, e va un po'
cosi". Lui mi guarda e mi dà una risposta che era la più impensata in
assoluto, non potevo neanche immaginarla. Mi guarda e mi fa: "Ma Enzo,
proprio
tu", ma con una faccia delusa: «Proprio tu ti comporti come se Cristo
non ci fosse?! E come se tutto dipendesse dalle tue mani: ma come credi di poter
andare avanti cosi? Non farai mai più niente di quello che fai, farai come
tutti: cercare quello che meno ti ferisce, che ti mette a posto. Non rischierai
più». Poi fa: «Comunque, in ogni caso, io ne voglio riparlare. Puoi venire
appena puoi?». Figurati! Due giorni dopo ero su. Cosi, ci vediamo a pranzo e
dice: "Allora, racconta di nuovo". Allora ho accennato, però gli ho detto: "Senti, Giussani, guarda io non voglio
rubarti del tempo, perché poi adesso ho capito. Guarda, da me c 'è una
cappellina e adesso io prima di andare in sala operatoria vado lì e dico una
preghiera e le cose si rimettono insieme. Sono più tranquillo. Lui scatta:
"Enzo, ma che pregare e pregare! Il problema non è pregare, è che tu non
sai offrire. Il tuo problema è che non sai offrire, e offrire significa che la
realtà non è una cosa che hai in mano tu, non è tua, e che tutto quel che si
fa è come se avesse dentro la domanda che il Signore, padrone di questa realtà,
si riveli, perché è cosi che si vive, e tu, guarda - te l' ho detto, ma te lo
ridico un'altra volta - smetterai di fare quel che fai e avrai paura di rischiare". E infatti era vero, era impressionantemente vero: erano due
mesi che dicevo ai miei due assistenti più grandi: «Ragazzi, basta fare
questi interventi: non abbiamo bisogno di problemi, io devo far carriera, meno
problemi ho e meglio è». Poi, continuando nella discussione, mi dice:
"Ma sai che cosa vuol dire offrire, riconoscere che la realtà non è tua,
che non l' hai fatta tu, che non sei padrone delle cose? Vuol dire che tu stai di
fronte alla realtà con una povertà che è il modo più vero, più autentico di
starci di fronte: sei seriamente più realista, prendi in considerazione le
cose, ti accorgi del limite che hai, se non sai chiederai e chiederai, e non
dovrai difendere la tua immagine, la tua posizione".
Insomma, ve l' ho detto,
mettere il cuore in quel che si fa è possibile per qualcosa, se c'è qualcosa
di più grande di te, ma questo qualcosa di più grande di te deve essere
presente. Presente, cioè qualcosa a cui puoi dire: "Ecco, ecco qui",
cioè qualcosa che riconosci, a cui rispondi di quel che fai. E rispondere a
qualcuno o a qualcosa di quel che si fa è il modo con cui la realtà diventa
drammaticamente presente, altrimenti c'è solo quel che pensi, che senti, che
va, che non va, e cancelli le cose che non vanno o che non senti, ma c' é anche
quello che non senti, e c'è anche quello che non va.
Ma non era finita: è
questa la cosa che ultimamente è ancora più chiara. Non era finita, perché da
lì a un po' è successo un episodio che mi ha chiarito il punto finale della
questione, ed è che una di noi a cui ero molto
affezionato (questo è un episodio difficilmente dimenticabile per me) era
stata operata in un'altra sede e si era complicata. Giussani una domenica
mattina mi telefona e mi dice: «Te la sentiresti di prendertela a
cuore?)». In quella sede c'erano i miei capi anche di indirizzo chirurgico,
perciò era un bel problema, tanto più che ero sotto concorso. Allora io non
dico questo a Giussani, ma dico: "Insomma, se è necessario lo facci".
Si fa. Vado e dopo un po', la faccio breve, mi chiede: ("Te la senti di
portarla da te a Bologna?". Dico: "Caspita, è un bel colpo», anche
perché in tutti i colloqui avuti, i chirurghi, che io conoscevo benissimo,
avevano già detto: "Guarda, non toccarla, non farlo, perché noi l'abbiamo
operata: non è operabile. Non farlo, perché questa ti muore, capito? Tirala
avanti, prenditela pure a cuore [anzi, erano contenti quasi di darmela], ma non
toccarla perché muore, capito? Tirala avanti finché puoi con terapia medica e
spera che si risolva da sola". Cosi l' ho portata giù e ho fatto
letteralmente cosi, cercando in ogni modo di capire se c era margine per
portarla avanti senza impegnarmi in una cosa che mi avevano detto esplicitamente
che non era possibile. E siccome questi non erano gli ultimi arrivati, era
verosimile. Mi sono impegnato seriamente a capire che margine avevo di attesa,
ma tutti i dati mi davano che non era possibile attendere. Così a un certo punto
dovevo andare, dovevo farlo. Dovevo farlo: i dati non mi permettevano un gioco,
un giro di attesa. Il giorno che ho deciso l'intervento per il giorno dopo ho
cercato Giussani per telefono. Perché, ecco quello che volevo dirvi: non basta
dire che occorre una cosa più grande che sia presente; non si riesce a mettere
il cuore in quel che si fa, non si resiste, perché dopo un po' la realtà è
dura e il cuore cede e dopo un po' incomincia il lamento o incomincia l' autodifesa:
bisogna non essere soli. Bisogna non essere soli. Cosi ho preso su il telefono e
ho cercato Giussani. Ho avuto la fortuna di trovarlo e gli ho detto:
"Scusami, Giussani, se ti telefono alla sera cosi. Non ti chiedo di
risolvere i particolari tecnici o di dirmi che cosa devo fare, perché i dati mi
portano lì. Però io se non avessi trovato te, avrei dovuto cercare qualcun
altro perché, non so se è sbagliato o no, ma ho bisogno di un paragone, di un
aiuto, di un conforto. Di un conforto, anche semplicemente di
un conforto, perché ho paura, non sono tranquillo". Lui mi ha detto:
"Non sbagli, è molto giusto. Perché tutta la certezza scientifica non può
darti la sicurezza di tentare, come non può darti la sicurezza nella vita. C'è
bisogno di una memoria di un rapporto vivente con te, altrimenti non si riesce
ad andare oltre quello che misuri, quello che fai». Poi fa: "Senti, i
dati dicono così: di fronte a Dio bisogna andare. Di fronte agli uomini non lo
so, ma non m'importa: di fronte a Dio bisogna andare!». Straordinaria la
cosa! Straordinaria, ragazzi, perché è una certezza che è dovuta al fatto che
i dati sono le circostanze, capite? Non è solo il fatto delle quattro
radiografie: sono le circostanze a cui devi rispondere, con cui ti guardi, perché
quello è il volto con cui Dio si presenta nella tua vita. E cosi l' ho operata.
E stato un intervento incredibile (mi ricordo ancora quante ore). Poi ho
lasciato passare un po' di giorni, perché non sapevo. In terza-quarta giornata
ho capito che le cose andavano bene, e allora ho ritelefonato a Giussani: «Giussani, sta inaspettatamente andando bene». Silenzio. Poi fa:
"Scusami, ma avevi dei dubbi?". "Se avevo dei dubbi? Ero pieno di
dubbi: ne avevo fin sopra qui:c'era un disastro, ho perso dei chili". E lui
fa: Guarda, te l'avevo detto...». Era stato bellissimo quando mi aveva detto: «Guarda, noi preghiamo Dio e san
Pampuri, e tu vai". E alla fine mi
dice: "Grazie per essere stato strumento di un miracolo. Ecco, guardate
ragazzi, questa è la posizione giusta nella vita, perché non potevo nemmeno
insuperbirmi per tutto quello che avevo fatto. «Strumento di un miracolo»
vuol dire che io non ho fatto niente. Se questa è la posizione nella vita,
scusatemi, ma che paura si ha più? Che cosa ci può fermare?
L'ultima osservazione sulla mia professione (brevissima). Proprio due o tre mesi fa, è
successo un fatto grave da me, e ho detto a Giussani: "Io non so più -
delle volte mi vengono dei dubbi atroci - se quel che faccio e rischio, è
l'ultimo dubbio che ho, se quello che faccio e rischio è frutto di un mio
temperamento o è un'obbedienza seria alla realtà. C'è un modo per capirlo? A
volte mi sembra di avere come
temperamento di rischiare cosi. C'è un modo per capire se è il mio temperamento o è un'obbedienza alla realtà?». "Sì, ed è quell'offerta
che ti ho detto, di fronte a qualcosa di presente, perché di fronte a qualcosa
di presente è come il bambino che sta lì, sta facendo qualcosa che non va,
arriva il padre e capisce lo sbaglio che sta facendo. Perché la presenza dà
una drammaticità. Qualcuno o qualcosa a cui si risponde di quel che si fa dà
una drammaticità della vita in cui le cose diventano più autenticamente
presenti. Andare a lavorare così, puoi essere stanchissimo, puoi avere tutta la
coscienza girata, ma alzi su la testa e rispondi a tono. E poi perché hai paura
del tuo temperamento? [guardate, questa è stata una liberazione!] Perché hai
paura del tuo temperamento? Se Dio ti ha fatto cosi, tu servi con quello che
sei! Perché devi avere paura del tuo temperamento?". E stata un'altra
liberazione, perché io mi penso sempre come sono, istintivo e violento.
Se
questo è l'iter della mia questione professionale, l'altro punto che della mia
vita è indimenticabile è quel che ho capito su cosa vuol dire voler bene.
Eravamo in macchina insieme (accompagnavo Giussani da Cesena a Bologna) e si
dialogava (gli facevo spesso da autista). Si dialogava e lui fa: "Come va?
Come va la tua famiglia?", ed era un periodo in cui già da un po' di tempo
(ma molto tempo) sentivo spesso le osservazioni intorno a me: "Ma che vita
fa quello lì, ma la sua famiglia, e sua moglie..."; erano cose che sentivo
in giro: "Ma i suoi figli, sua moglie, ma che vita è". E io non ci ho
mai fatto caso, perché sono cose che mi interessano relativamente: so io quello
che sento come vero a cui non posso sottrarmi. Solo che dopo un po' queste cose
entrano dentro e quindi ho incominciato a chiedermi: "Ma che vita
faccio?". Allora dico: «Giussani, ho un dubbio: mi è venuta dentro
questa cosa che, a forza di sentirla, anch'io mi chiedo: ma che vita faccio? Ma
gli voglio bene o no?". Lui fa: «Ma senti, tu vuoi bene alla tua
famiglia?». Dico:"Si". Ai tuoi figli vuoi bene?». Dico:
"Si". "Fai un esempio!". Non so chi di voi
sia mai riuscito a fare un esempio in merito. Non sapevo che cosa dire. Allora
ho detto quello che succedeva: «Guarda, succede spesso che vado a casa alla
sera tardi, o per la professione o per il movimento, e mia moglie (allora
abitavamo in una casa piccola, adesso più grande, ma vuota perché i figli sono
tutti via) lascia un po' aperte le porte delle camere per sentire se i figli si
lamentano, se si svegliano. Io arrivo e debbo accendere solo le luci di entrata,
perché se accendo le altre i figli si svegliano e sono guai seri, perché mia
moglie su queste cose... Accendo la luce di entrata, vado dentro pian piano, mi
spoglio in corridoio senza far rumore; dalle porte socchiuse filtra questa luce
che illumina i lettini in cui ci sono i figli. E' difficile descrivere, ma mi
prende una tenerezza infinita nel veder questi gomitoli lì sul letto. Allora io
furtivamente vado dentro, ne prendo su uno, e qualche volta si svegliano:
"Papa!". "Sssttt! Se no la mamma...". Li stringo un po', me
il sbaciucchio...». Allora dico a Giussani: "Insomma, mi sembra di volergli
bene". E Giussani fa: "Non è mica cosi che si vuol bene. Guarda, il
modo vero di voler bene è che proprio quando questa tenerezza è intensa, vera
e trascinante, umanamente trascinante, dovresti fare un passo indietro,
guardarli e dire: "Che ne sarà di loro?", perché voler bene è capire
che hanno un destino, che non sono tuoi, sono tuoi e non sono tuoi, che hanno un
destino e che è proprio guardando la drammaticità che il destino impone nel
rapporto e nelle cose, nel futuro e nel presente, che tu li rispetterai, gli vorrai bene, sarai disposto a fare tutto
per loro, non ti farai ricattare se ti
obbediranno o no".
Era una cosa nuova, che capisco che è vera sempre.
Pensate a quando ci si vuol bene tra uomo e donna: se non c'è questo giudizio,
è come tra cani, è la stessa cosa; cosa c'è di diverso? E impressionante,
perché quella cosa mi ha proprio sempre illuminato. Mi ricordo di un incontro a
Chieti con Giussani, quando lui per la prima volta ha introdotto
prepotentemente, pubblicamente la questione del "tu". Del
"Tu", per cui l'altro è un "tu"; questo Mistero che lo fa
consistere è un "Tu", è qualcosa
con cui tu guardi, e ne nasce un rispetto improvviso, una familiarità e un rispetto improvviso, sconosciuto prima, mai cosi
intenso. Beh, aggiungo un
particolare. I figli sono cresciuti, e sono andati via tutti: una è andata in
Cina, che fra l'altro è il posto più brutto del mondo (mi scuso con i cinesi
presenti, ma lo sanno anche loro, dai!). Comunque, è vero! Andare in Cina è
come tonnare indietro di duemila anni in un colpo. Infatti io non capisco mai
perché i miei colleghi abbiano tutto questo amore per l'Oriente. Un altro che
doveva fare, secondo me, il medico, è andato a fare Scienze della Comunicazione
a Lugano: tra gli svizzeri di cui sopra. Per cui non c 'è nessuno. Qualche volta
riusciamo a trovarci tutti insieme, ma è raro. Cosi un giorno mi sono trovato
con loro a pranzo e avevo questa cosa che pensavo da tempo, e dico: "Ma
scusatemi, perché voi siete del movimento? Io non vi ho mai parlato del movimento: perché siete
del movimento? E' strano, non ve ne ho mai parlato". E' vero, non avevo mai
intavolato il problema del movimento in
famiglia: abbiamo vissuto cosi, io ho vissuto secondo quello che dentro
incominciava a prendermi con mia moglie e con tutto. Allora dopo un po' mi ha risposto
la grande, e dice: «Sai perché noi siamo del movimento? Primo,
perché siamo sempre stati colpiti dalla totalità della tua dedizione al
movimento [che strano: era esattamente il fattore per cui ero meno presente in
casa, ed è stata la cosa che li aveva colpiti di più. E' lì che ho capito che
è inutile - ragazzi - salvare capra e cavoli: il gusto della vita, la bellezza della vita è
proporzionale all'impegno con l'ideale! Che cosa volete calcolare ancora? A vent'anni,
poi, figurati], e poi l'altra cosa che ci ha
sempre colpito è che quando tu portavi i tuoi amici e vi vedevamo lì, era un
tipo di amicizia che abbiamo sempre desiderato anche per noi.
Ragazzi, questo è il punto, perché l'autorevolezza della
nostra vita è un'amicizia, ed è
un'amicizia che colpisce perché è un' amicizia che è impossibile senza quello
che ci diciamo e ci siamo detti oggi, ed è un tipo di amicizia che traspare in
una modalità di rapporto, di dedizione, di totalità, di intensità, di servizio
vicendevole. Ma dove lo trovate? Ma dove è possibile? E infatti Cristo è presente in una amicizia in cui
l'unica ragione è
Lui. Ed è questo che convince tutti: sono stato convinto io da questo. Insomma,
io capisco che qui si gioca tutto, a questo livello si gioca tutto.
Allora, scusatemi, concludo. Due cose nella mia vita sono
importanti. La prima
è questa: che proprio per quel che vi ho detto, il gusto della vita non è
negato a chi sbaglia, ma a chi non ha un senso dell'infinito, del destino, dell'ideale, del Mistero presente,
perché allora il problema non è sbagliare o
non sbagliare. Il gusto della vita non è negato a chi sbaglia: è negato a chi
non ha un nesso con il Destino che fa le cose, con il Mistero presente. Per cui
tutto è un'ipotesi positiva, il tempo che per tutti è sinonimo di decadenza, lavora in positivo.
Se guardo la mia vita, che razza di roba è successa! Dico sempre: se è successo cosi fino adesso, immaginiamoci cosa succederà
nel
futuro! Ne vedremo delle belle. E' interessante, no? E' un'avventura.
Ed è
esattamente qui il problema, perché la seconda cosa è che se dovessi
paragonare la mia vita, come si è svolta (c'e una legge fisica che dice che l'orizzonte
si muta mutando il punto di osservazione), userei questa metafora: la mia vita
è come una mongolfiera, più vado, più m' innalzo, più mi impegno, più sono
dentro a questa vita, più scopro degli aspetti dell'umano che erano impossibili
prima: la capacità di fedeltà, di amicizia, di lealtà, di ripresa, di
indomabilità, che non avevo mai pensato prima. Perciò, da ultimo, è una
gratitudine. Come ho iniziato, cosi voglio finire: è una gratitudine che
caratterizza la mia vita, perciò non ho paura di darla tutta.