CHARLES PEGUY 1873 - 1914

«Ho sempre preso tutto sul serio, e questo mi ha fatto molto camminare». Con queste parole Charles Péguy indica la grande direttiva che guidò tutta la sua vita, accompagnata da una profonda attenzione all'umano, e lealtà nei confronti del reale: «Io obbedisco ai segni: non bisogna mai resistere»... «fedeltà al reale che metto sopra di tutto».

Nato nel 1873 a Orléans da una famiglia di tradizione cattolica, si staccò ancora studente dalle pratiche religiose.
«Fin da quando era studente di filosofia a Orléans, mio padre non praticava più con grande convinzione. Al liceo Lakanal [di Parigi] trovò che era più sincero non praticare affatto la religione» dice suo figlio Marcel in «Lettres et Entretiens».
Non si sentiva, infatti, di vivere un'adesione dettata dal comodo o dall'abitudine, per quella sua naturale schiettezza d'animo e lealtà con se stesso. Sentiva vivamente l'importanza di ogni gesto umano, in quanto tale: «Non c'è atto insignificante, e ogni azione è importante e si ripercuote in tutto il mondo morale».
Il distacco dalla Chiesa era stato determinato dalla influenza inevitabile dell'ambiente del tempo, alla cui tradizione razionalista era impossibile resistere, a meno di essere confinati in una specie di scomunica, che escludeva dal dinamismo della vita culturale.
«Péguy entrò in questa corrente così violenta e la sua giovinezza ne fu trascinata. La nostra repubblica, per la sua dottrina come per le sue origini, porta inevitabilmente alla rivoluzione. Péguy diventò rivoluzionario, cessò di essere credente.» (da «Péguy et les Cahiers de la quinzaine» di Daniel Halévy, pag. 27).
L'acceso anticlericalismo dei suoi giorni, il disprezzo massonico per ogni ipotesi religiosa gli facevano vedere la Chiesa come una società decadente, refrattaria al progresso e incapace di rispondere alle esigenze delle classi povere, assente dalla società civile. Allo stesso modo la divinità, della cui esistenza egli non fu mai negatore ne dubbioso, era sentita come assente dal mondo dell'uomo, con tutti i suoi problemi e le sue pene.
Questo vuoto, createsi per il cedimento della persuasione religiosa, fu colmato dall'adesione al socialismo, con le sue promesse di liberazione dell'uomo dalla morsa del dolore e della fame. Si era allora nella fase incandescente e utopistica dell'impegno socialista.
Ma poi, una volta consolidata la propria forza elettorale, il socialismo, da mistico che era, si piegò alle tattiche e ai compromessi, precipitò in un grottesco materialismo pseudo-scientifico, e Péguy scoprì che i suoi amici avevano preso il gusto della potenza, della autorità, del comando: « Quando predicavo la rivoluzione sociale, volevo rendere universale la liberazione, dare soprattutto agli uomini il modo di sfuggire all'oppressione economica dei borghesi. Non supponevo che, dall'inizio della rivoluzione socialista, si sarebbe aggiunta all'oppressione degli avversari quella del partito; davvero costoro hanno soppresso la libertà di coscienza».
Ma una volta che ne ebbe scoperto il limite, egli potè lasciare senza rimpianto il socialismo, perché anche questa esperienza non forniva la risposta alla fondamentale esigenza di attenzione universale e di salvezza comune, poeticamente espressa fin dal primo dramma «Giovanna d'Arco» (scritto quando esii aderiva ancora in modo totale alla mistica socialista), che si conclude con questi versi:

«Perciò, mio Dio, fate in modo
di salvarci tutti,
mio Dio
Gesù salvate noi tutti alla vita eterna».


La critica del mondo moderno introdusse Péguy nel regno di una inquietudine ineliminabile, che era protesta e ribellione ma che, dopo un decennio di ricerca, lo fece approdare dal tumulto della polemica all'abbandono a una esperienza totale, non per stanchezza, ma per l'elevarsi progressivo del suo punto di vista.
La prima voce che l'avviò in questa direzione fu quella della filosofia di Bergson, dominata dall'esigenza di integralità di afferrare il reale nella mobilità continua del divenire: assetato com'era di una unità dinamica, egli sentì tale incontro come un'autentica liberazione.
Nello stesso tempo maturava in lui un concetto di rivoluzione totale, che preludeva direttamente alla conversione: «fare una rivoluzione non vuol dire tramare contro quello che era, ma preparare delle realtà nuove e delle autentiche novità; fare qualcosa di vero e di nuovo. Al di fuori di queste due categorie non ci sono rivoluzioni organiche, ma solo infantili» (da «Par le demi-clair matin», pubblicato postumo in Nouvelle Revue Francais).

Della novità lentamente avvenuta nel suo spinto, prese coscienza in modo improvviso nel settembre 1908 come testimonia nei suoi «Entretiens» il fedele amico Joseph Lotte: «A un certo punto si rialzò, e con gli occhi pieni di lacrime disse: — Non ti ho ancora detto tutto... Ho ritrovato la fede, sono cattolico! — Fu come una forte emozione d'amore e, piangendo a calde lacrime, con il capo tra le mani, gli dissi mio malgrado: — Mio povero vecchio, siamo tutti allo stesso punto! Siamo tutti allo stesso punto: da dove venivano queste parole, dal momento che un attimo prima ero ancora incredulo? Dì quale lento, oscuro, profondo travaglio esse rivelavano la conclusione? In quel momento compresi di essere cristiano».
Il motivo profondo che aveva indotto Péguy a riaccostarsi alla realtà del Cristianesimo era la scoperta della Incarnazione, in cui tutte le scissioni si compongono in
unità e in cui ogni sofferenza trova il suo significato, il centro del Cristianesimo non è nella croce, ma nel Cristo crocefisso e glorioso:

«Non ci sono, non ci possono essere che due specie, due tipi di sofferenza: la sofferenza che non è perduta e la sofferenza che è perduta. Noi appartaniamo alla sofferenza che non è perduta, insieme con Gesù Cristo; la nostra sofferenza è della stessa specie, e della sfessa razza della sofferenza di Gesù Cristo; la nostra sofferenza non è mai perduta, purché lo vogliamo» (dal « Mistero della Carità di Giovanna d'Arco »).

Per questo negli anni immediatamente successivi alla conversione l'itinerario della sua vita e quello poetico seguirono due direzioni apparentemente opposte ma misteriosamente coerenti: mentre il primo si sprofonda nelle regioni del dolore, il secondo si alza verso i cieli della speranza. Nascono allora «II Portico del Mistero della seconda virtù» e «Il Mistero dei Santi Innocenti», percorsi dallo stupore di un uomo che scopre nell'universo un disegno positivo oltre ogni previsione, e recupera nell'umanità pienamente tale, debole e limitata, eppure ingigantita da una novità che le è donata, perché «nelle parole del Cristo non c'è astrazione, e nemmeno nella Bibbia: Cristo non è venuto a discutere, ma a riempire con la Grazia», fonte di tale novità. . .
A questa rigenerazione di tutto il suo essere nello spirito di Dio ogni uomo è chiamato: «Noi abbiamo tutti la vocazione di essere salvati. Tutto il mondo cristiano ha la
vocazione di operare la sua salvezza. E i1 resto del mondo ha la vocazione di diventare cristiano» (dal «Seguito del Mistero della Carità»).
L'esigenza della completezza, l'attrattiva infinita del Paradiso perduto, che perseguiteranno l'uomo fino all'ultimo dei suoi giorni, sono tema costante dell'ultimo poema di Péguy, l'«Eve », pubblicato nel 1913.
Eppure c'è nell'uomo una libertà terribile e affascinante: la libertà di dire di no al Creatore, di opporsi alla propria felicità:

«Dio ha bisogno di noi,
Dio ha bisogno della Sua creatura.
... Noi possiamo mancarGli
Non rispondere alla Sua chiamata
Non rispondere alla Sua speranza.
Ritirarci. Venir meno. Non essere presenti.
Straordinario potere...
Straordinaria libertà dell'uomo.
Possiamo essere assenti
Non esserci il giorno in cui ci chiama
E non rispondere alla chiamata...
Possiamo mancare a Dio
Ecco la situazione in cui si è messo.
Egli si è messo nella situazione di avere bisogno di noi.
Che imprudenza. Che confidenza
Bene, o male riposta, ciò dipende da noi.

(dal «Portico del Mistero della seconda virtù»)

questa libertà dell'uomo è condizione per un libero gesto d'amore che un Dio, Padre oltre che Persona, un Dio di cui «non bisogna avere paura perché Egli benedice le messi a condizione che noi le abbiamo seminate », attende da lui, e «tutte le prostrazioni del mondo non valgono quanto il bell'inginocchiarsi diritto di un uomo libero » (dal «Mistero dei Santi Innocenti»).
L'autentica libertà è adesione: ecco come si concludono meditazioni di questo genere; nell'esperienza che già Henry Ghéon aveva così descritto. «Da quando dipendo da Dio, e solamente da allora, io dipendo da me stesso; nella mia sottomissione mi sento libero e svincolato»
Il terreno su cui ha potuto crescere una convinzione così cosciente e profonda è quello dell'attenzione e del preciso impegno con il reale, atteggiamenti tipici di tutta la sua vita, il cui valore universale egli stesso definì così: «Da un'anima pagana si può fare un'anima cristiana. Ma di coloro che non sono nulla, ne antichi ne moderni, ne idealisti ne materialisti, ne pagani ne cristiani, di questi morti viventi che se ne può fare?» (da Clio).
Già lo stesso principio aveva affermato negli anni dell'oscurità e del dubbio, quando saputo che l'amico Baillet, ex compagno di liceo, si era fatto monaco benedettino, disse: « Se io fossi rimasto cattolico senza dubbio sarei diventato prete con lui».
Ma dopo la conversione questo si tradusse in poesia, cioè in preghiera e meditazione perché tale è la definizione più autentica della poesia di Péguy.

«... O Regina del mare,
con queste preghiere non vi chiedo altro
che di mantenermi fedele ai vostri comandamenti:
una fedeltà più forte della morte».

(dalle Cinque Preghiere nella Cattedrale di Chartres).

Dopo il pellegrinaggio compiuto a Chartres nel giugno 1912, Péguy scriveva: «Sono molto cambiato da due anni, sono un uomo nuovo».
Ho sofferto tanto e pregato tanto, ma possiedo tesori di Grazia, una sovrabbondanza incredibile di Grazia »
(dagli « Entretiens » con Joseph Lotte - 28 settembre 1912). Questa esperienza è già l'approdo definitivo della sua vita, è lo scioglimento di un dramma di cui l'opera poetica era stata preannunciata, e il dolore profezia.

La morte lo raggiungerà improvvisa meno di due anni dopo, il 5 settembre 1914, a Villery, nei giorni furibondi della battaglia della Marna. Queste sono le ultime parole che egli scrisse: «Il cattolico è un uomo che sa con certezza di essere sulla buona strada spirituale e che sente ugualmente l'esigenza di consultare i cartelli indicatori. Conosce bene la sua strada, la vede, la segue con tutti gli altri. Il cattolico segue le tradizioni. Invece i protestanti si costruiscono personalmente i propri cartelli indicatori». In questo atteggiamento di un seguire cosciente sono contenuti tutta la sua esperienza e il suo insegnamento, che è una parola umile e pur grande; non ha voluto essere un teologo, ne un padre della Chiesa: «È già molto esserne figlio» diceva non senza umorismo.
«Non sono un santo. Sono un peccatore... Sono un cronista, un testimone, un cristiano della parrocchia, un peccatore, ma un peccatore che possiede tesori di grazie» (da «Lettres et Entretiens»).
Concludiamo con il giudizio che Bernanos ne ha dato in «Les enfants humiliés»: «Non considero proprio Péguy un santo, ma un uomo che dopo la morte, resta a portata di voce e anche più vicino, alla portata di ognuno di noi, e che risponde ogni volta che lo si chiama».

(FONTE :cooperativa culturale cario de cardona)