GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi - Recanati
Recanati 29/06/1798 - Napoli 14/06/1837

"Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusione l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende un desiderio inesausto. E' scettico, e ti fa
credente". (F. De Sanctis)

"Per interi giorni (corridoi, corridoi stretti lunghi, stanzini, stanze: tanti vani che uno ci si perde) il privilegio mi è stato concesso di aggirarmi dentro i casoni che, appiccicati per forza insieme, formano il brutto palazzo dove il Poeta s'era aggirato. E, in quel borgo - dal quale, in rari punti culminanti, o salito all'altana nel palazzo stesso, può la vista estendersi entro lo spazio il più largo (l'infinito) che ad occhi umani sia dato d'abbracciare - uno si viene, se va a spasso, a trovare affiancato da muraglie di cotto e, mentre va, da un casamento, che, d'improvviso, s'è proteso di traverso, gli è tagliata la strada. Rimane il breve varco, dove potrebbe sorgere un 'roveto', un 'verde lauro od altra 'siepe'. Succede quindi di consueto, in Recanati, che si provi un effetto di segregazione, di siepe, con un desiderio irrefrenabile dell'infinito..." (G. Ungaretti)

All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbiettivi sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione.(Zibaldone, 30 novembre 1828, 1 domenica dell'Avvento)

"L’uomo non può assolutamente vivere in una grande sfera, perché la sua forza o facoltà di rapporto è limitata. - In una piccolissima città ci possiamo annoiare, ma alla fine i rapporti dell'uomo all'uomo e alle cose, esistono, perché la sfera de' medesimi rapporti è ristretta e proporzionata alla natura umana. In una grande città l'uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda... Da questo potete congetturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città... L’unica maniera di poter vivere in una città grande, e che tutti, presto o tardi, sono obbligati a tenere, è quella di farsi una piccola sfera di rapporti... Vale a dire fabbricarsi dintorno come una piccola città, dentro la grande... Non finirei mai di discorrer con voi. Tutti dormono: io rubo questi momenti al sonno, perché, durante il giorno, non mi lasciano un momento di libertà...(Al fratello Carlo, 6 dicembre 1822)

La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, nè, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.(Pensiero LXVIII)


L'INFINITO
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

 
 
LE RICORDANZE (vv. 50-57)
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Chio vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

 
ALLA SUA DONNA
Cara beltà che amore
Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne' campi ove splenda
più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l'innocente
Secol beasti che dall'oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla spene m'avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
Fra cotanto dolore
Quanto all'umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg’io siccome ancora Seguir loda e virtù qual ne' prim’anni L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m'abbandona:
E per li poggi, ov'io rimemhro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de'giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess'io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L'alta specie serbar; che dell'imago,
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.
Se dell'eterne idee
L'una sei tu cui di sensihil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s'altra terra ne' superni giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi
Questo d'ignoto amante inno ricevi.

 
 
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA (vv. 61-90)
Pur tu, solinga, eterna peregnina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu cento, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand' io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuoi dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?

 
 
A MARIA (Scritta nel 1819)
È vero che siamo tutti malvagi,
ma non ne godiamo, siamo tanto infelici.
È vero che questa vita e questi mali son brevi e nulli,
ma noi pure siam piccoli e ci riescono lunghissimi e insopportabili.
Tu che sei grande e sicura, abbi pietà di tante miserie.



VITA
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo, esponente di una nobile famiglia recanatese, e da Adelaide Antici, donna poco incline agli affetti, preoccupata soprattutto di restaurare la passata ricchezza dissestata da alcune scelte del marito. Giacomo trascorre l'infanzia e l'adolescenza nei 'veroni del paterno ostello" insieme al fratello Carlo, suo "confidente universale", e alla sorella Paolina, dedicandosi assiduamente alla lettura e allo studio dei numerosi volumi che trovava nella biblioteca paterna.
Nel 1819, dopo un fallito tentativo di fuga, inizia la composizione dei primi Idilli, tra cui l'infinito.
Nel 1822 riesce a realizzare il desiderio di raggiungere Roma, da dove ritornerà profondamente deluso. Nel 1825 lascia di nuovo Recanati per farvi ritorno un'ultima volta nel novembre del 1828: è questa la stagione dei "Grandi Idilli" tra cui il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia.
Dall'ottobre del 1833 insieme al suo amico Ranieri va a Napoli dove muore il 14 giugno del 1837.
A Recanati la sorella Paolina annota nel registro di famiglia: "a dì 14 giugno 1837 morì nella città di Napoli questo mio diletto fratello divenuto uno dei primi letterati d'Europa. Fu tumulato nella chiesa di S. Vitale, sulla via di Pozzuoli. Addio caro Giacomo-quando ci rivedremo in Paradiso?"

Realizzato dal CENTRO CULTURALE CHARLES PÉGUY - RECANATI