FINITO e INFINITO in LEOPARDI e MOZART

Ascolto guidato dal dott. Pier Paolo Bellini
Ancona, 27 marzo 1996 - Appunti non rivisti dall'autore
Si ringrazia l'Associazione Culturale Universitaria "Amadeus" e l'Associazione ListAperta di ANCONA
(Ho pubblicato questi appunti perchè mi colpì molto quando ascoltai l'incontro, in particolare quando il dott. Bellini disse che dietro ogni forma d'arte c'è un'esperienza...)

Innanzitutto cercherò di chiarire l’itinerario attraverso il quale vi vorrei guidare questa sera.
Come introduzione vi racconterò un attimo la mia esperienza personale, anche per farvi capire qual è l’intento e il taglio che darò a questa serata.
Mi ricordo che quando ho iniziato a suonare il pianoforte, avevo 10-11 anni, la mia unica preoccupazione era quella di rendere tecnicamente, di esprimere una capacità tecnica. Quando cominciai a cimentarmi con Bach, in modo particolare con i preludi e le fughe, la mia preoccupazione era solo quella di rendere in modo tecnicamente adeguato le forme. Questo mio atteggiamento nei confronti della musica continuò fino a quando, un giorno, incontrai un signore, che non era musicista, che mi disse: "Guarda, quella musica che stai suonando vuol dire questo". Lì per lì la cosa mi diede molto fastidio, mi era stato insegnato infatti che la musica è forma in cui ognuno pensa quel che vuole: ascoltando si può anche dire bello, brutto, mi piace, non mi piace, però il vero problema è rendere la forma.
Di primo acchito quel consiglio che mi era arrivato mi indignò: pensavo infatti che nessuno avesse il diritto di venirmi a dire il significato della musica che suonavo. Questa sera io vorrei fare la stessa cosa con voi, perciò penso che farò arrabbiare qualcuno. Andando avanti nel tempo e affrontando la musica anche da altre angolazioni, in seguito mi sono messo a studiare composizione, mi sono accorto che, pur non essendo musicista, aveva ragione lui.
Dietro ad ogni forma (questa è la cosa più affascinante a mio parere di fronte a qualsiasi forma d’arte, che sia l’architettura, la poesia, la musica) dietro ogni forma c’è un’esperienza, magari anche il tentativo di nascondere un’esperienza, magari anche il tentativo di annullare l’esperienza, ma una forma nasce sempre come comunicazione di esperienza.
Io mi sono reso conto, rimanendo parecchio tempo in ambito universitario che questo aspetto molte volte viene saltato, perché implica il rischio di un’interpretazione, perché è rischioso; tuttavia penso che saltare un elemento di questo tipo vuol dire saltare l’origine stessa della forma artistica, perché io posso dirvi come è fatta l’opera di Leopardi o come è fatta l’opera di Mozart, ma il problema è capire perché, perché quella forma, quale esperienza ci sta dietro.
Questo è il mio tentativo, per cui non vorrei fare una lezione accademica, anche perché penso che magari su Leopardi in molti capirebbero, invece su Mozart se andassimo a vedere la partitura rimarremmo in 4 o 5 qui.
In questo incontro vorrei cercare di individuare l’esperienza che sta dietro queste forme.
Quindi userò la poesia di Leopardi che spero tutti abbiate sottomano, perché leggerò proprio i testi, anche i testi della musica di Mozart: userò quella prima poesia come introduzione, come guida all’ascolto della musica che poi seguirà. Io sono convinto infatti che, con i dovuti distinguo, l’esperienza che ha generato queste due forme artistiche si somigli molto: l’esperienza che Leopardi ha comunicato, in altri termini, con altri accenti, è la stessa che ha comunicato Mozart attraverso un linguaggio diverso, attraverso una forma diversa.
Partiamo da una poesia di Leopardi: è l’ultima stanza di una canzone molto più lunga Sopra il ritratto di una bella donna in occasione del monumento sepolcrale della medesima, sopra il monumento sepolcrale della medesima. Leopardi descrive appunto un’esperienza che gli è capitata di vedere: un bel ritratto, il ritratto di una bella donna, sopra una tomba. Quando il poeta è colpito, lo vedremo leggendo la poesia, quando è colpito da qualcosa nell’esperienza, comincia a chiedersi (è un tema ricorrente) come mai questa cosa bella, questa cosa così bella, questa donna così bella non ci sia più.
Do un suggerimento prima di partire: se non volete annoiarvi (perché anche ascoltare i suoni non è facile, ne sono convinto) è meglio che facciate la fatica di lasciarvi guidare da queste cose, non tanto da me, ma da quello che è scritto qui come se fosse un itinerario in cui ci sono un punto di partenza e un punto di arrivo. Vi consiglio di cominciare un cammino perché altrimenti se ci si perde, recuperare è difficile. Lasciamo che sia Leopardi a dire dove dobbiamo andare, non in questa sala ma da altre parti.
Comincio a leggere:
...Desiderii infiniti
E visioni altere
Crea nel vago pensiere,
Per natural virtù, dotto concento;
mi fermo, e faccio una parafrasi, perché è un italiano abbastanza impegnativo.
Leopardi descrive un’esperienza, quindi cerchiamo di immedesimarci in questa esperienza. La costruzione un po’ intricata, latina, mette dotto concento, il soggetto di tutta quella frase in fondo. Leopardi sta descrivendo l’esperienza di uno che ascolta la musica, dotto concento e dice: "quando io ascolto - faccio la parafrasi - un dotto concento, un concerto, una sinfonia scritta bene, dotta, una cosa bella, quando mi imbatto in una cosa bella", e ci descrive che cosa succede imbattendosi in questa cosa bella, "una bella sinfonia, una bella armonia crea nel vago pensiere, nel pensiero dell’uomo, nel mio pensiero desideroso, crea nell’uomo, provoca nell’uomo - e Leopardi lo descrive - crea desiderii infiniti e visioni altere, desideri infiniti, straordinari, e visioni altere vuol dire che non sono quotidiane, che sono straordinarie per la virtù stessa della musica, per natural virtù".
Ecco mi fermo un attimo perché Leopardi dice: "quando io vedo una cosa bella, una cosa affascinante (qui è la musica, ma è lo stesso se guardate come parla della donna nella sua poesia Alla mia donna o quando parla di Silvia) quando vedo la bellezza sono costretto quasi a sfondare quella cosa che mi colpisce, ad andare oltre quella cosa che mi colpisce". Tanto è vero che dice: "questo dotto concento mi genera desiderii infiniti". Qui devo spiegare il titolo che ho dato a questo incontro, per capire bene i termini, perché il titolo è Finito e infinito in Leopardi e Mozart. Leopardi usa il termine finito e il termine infinito nel senso letterale del termine.
Finito dal latino deriva da fines cioè confini, qualcosa che è determinato, che è finito, che ha dei margini, che ha dei limiti; mentre l’infinito è il contrario, negazione del limite. Leopardi, già da queste prime righe è come se ci dicesse questo: "quando mi imbatto in qualcosa di finito come può essere la musica, dei suoni, sono ben determinati - quando mi imbatto in qualcosa di finito può essere la bella donna - e questa cosa mi colpisce, mi piace, ecco sono quasi costretto per natural virtù, per la potenza stessa della bellezza, son costretto ad andare oltre, a desiderii infiniti, ad andare dietro quella cosa, a visioni straordinarie". Vado avanti perché dopo vi farò degli altri esempi per testimoniarvi questa dinamica che Leopardi usa sempre.
Onde per mar delizioso,
arcano Erra lo spirto umano;
Quasi come a diporto
Ardito notator per l’Oceano:
Dice: "per questo, quando faccio quest’esperienza, lo spirto umano, il mio spirito, l’umanità, la mia anima, erra, comincia a vagare per un mare delizioso, il mio spirito che è arcano, misterioso - per Leopardi l’uomo è un mistero - io comincio a vagare in spazi indeterminati, infiniti, mar delizioso, quasi come un navigante coraggioso in mezzo all’Oceano, in alto mare".
Anche l’Infinito esprime, in modo forse ancora più significativo, questa dinamica.
La poesia inizia così: "Sempre caro mi fu quell 'ermo colle e questa siepe che da tanta parte dell’ultimo universo il guardo esclude".
Immaginate Leopardi che dice: "mi è caro un colle e una siepe", come fa ad essergli cara una siepe? Perché gli è cara quella siepe? Nel prosieguo della poesia spiega che quella siepe gli è cara perché gli impedisce di vedere che cosa c’è dietro, lo costringe a immaginare spazi infiniti, lo costringe a immaginare orizzonti che non sono di qua, sulla terra, sono altri orizzonti.
Vi ho fatto questo esempio, perché la dinamica che Leopardi descrive è la dinamica più interessante dal punto di vista dell’esperienza umana: tutte le volte che qualcosa mi impedisce di vedere, a me è caro perché mi costringe ad andare di là, dall’altra parte, a vedere se c’è quel la cosa che corrisponde al mio cuore, desiderii infiniti". Per Leopardi la realtà finita delle cose costringe sempre ad andare di là, a vedere che cosa c’è di là. Se pensate a come finisce l’Infinito, che, ricordiamo, è uno dei primi canti, "e naufragar mi è dolce in questo mare" è evidente che nel poeta c’è un ipotesi positiva: io immagino cosa c’è di là e provo anche gusto, mi è dolce naufragare in quello che c’è di là, in quello che c’è di là dalla realtà, perché la realtà per quanto sia bella mi costringe sempre a superarla.
Mi viene in mente una frase di Shakespeare che dice: "datemi la donna più bella del mondo, che cos’altro è se non l’immagine di una donna ancor più bella di lei". Più o meno è la stessa intuizione che descrive Leopardi. Attenzione però perché ci ha raccontato un’esperienza e adesso ne racconta un’altra: la vita è molto contraddittoria, sembra suggerirci il poeta.
Cominci infatti con un "Ma", e quando Leopardi usa i ma, è sempre un momento difficile.
Adesso ha descritto una bella cosa,
Ma se un discorde accento
Fere l’orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento.
Dice, dopo aver visto la bellezza: "Ma se un discorde accento - aveva parlato del dotto concento prima, della bella musica e adesso...- Ma se un discorde accento", un musicista la chiamerebbe dissonanza, anzi meglio ancora stonatura, immaginate un bellissimo quartetto d’archi oppure una sinfonia di Haidn, e in mezzo a quegli archi celestiali arriva un trombone e caccia un suono sgraziatissimo, ecco è quello che sta descrivendo Leopardi, "Ma se un discorde accento colpisce l’orecchio, in nulla torna quel paradiso in un momento. Tutto quello che avevo costruito, tutto quello al quale il limite mi aveva costretto ad andare oltre, diventa nulla, quel paradiso diventa nulla". Quindi per Leopardi questo desiderio di andar di là è qualcosa che non resiste. Quando spiegavo la prima esperienza di cui Leopardi ha parlato a dei ragazzi delle superiori la capivano perché quando ad esempio ci si innamora, quell’esperienza è evidente.
Però mi dicevano: ma cosa vuol dire questo discorde accento? Facevo un esempio un po’ banale e dicevo: "Avete capito che cosa vuol dire questo andare oltre, tanto è vero che quando vi innamorate costruite tutto, vi innamorate di una ragazzina e già pensate alle Haway, e costruite sopra, andate oltre quella cosa lì. Allora provate ad immaginare che durante un’ora di lezione avete costruito tutto questo, tutto l’infinito che c’è dietro, il naufragare dolce in quel mare, e poi suona la campanella e mentre si esce questa qui, lei, dà la mano a lui, che non è lui, è l’altro, no! Ecco, quello è un discorde accento in cui in quel paradiso torna il nulla, in un momento. Per Leopardi l’esperienza dell’uomo è questa: la continua tensione a qualcosa che non c’è su questo mondo, di cui la bellezza di questo mondo è solo un segno. Un segno per quanto affascinante, non è sufficiente, però tutte le volte che prova una costruzione, che prova a costruire cosa c’è dietro quel segno, basta un discorde accento e tutto il paradiso torna in nulla, tutta la costruzione.
Le ultime due strofe che leggiamo descrivono un atteggiamento morale di Leopardi che è straordinario. Anche di fronte alla contraddizione dell’esperienza umana non parte mai negativamente, non dice inizialmente siamo fatti male, ma usa un atteggiamento straordinario, cioè chiede, domanda, non si sa a chi, ma domanda. Se c’è una cosa che, anche dal punto di vista stilistico, a mio parere contraddistingue Leopardi da tanti altri poeti, è l’uso dei punti interrogativi.
Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia è una poesia con una serie straordinaria di punti interrogativi, di domande; questo atteggiamento rimarrà immutato fino alla composizione di La ginestra. Leopardi di fronte alla contraddizione che prova, comincia a chiedere: se guardate le ultime due strofe, infatti, vedete che sono due domande.
Andiamo a vedere che cosa chiede
Natura umana, or come,
Sefrale in tutto e vile,
Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?
Si chiede: "natura umana, uomo" Leopardi parla di sé, ma parla di tutta l’umanità, lui è convinto che tutti vivano così, e lo dirà anche "natura umana, uomo, come mai, se sei fragile del tutto e vile...", vile non è un aggettivo morale, è un aggettivo proprio di sostanza, dal latino vile vuol dire proprio che non vale niente. "Uomo, se non vali niente, se sei così fragile da non aver valore, se sei polvere ed ombra cioè se non hai proprio nessuna consistenza, come mai senti tanto alto?" Questa è una descrizione dell’uomo a mio parere tanto straordinaria. Dice: "uomo se non vali niente"- come lo dimostra il discorde accento, in nulla torna il paradiso - "uomo se non vali niente, perché senti alto?". È bellissima questa descrizione che vuol dire letteralmente: "perché senti più alto di te? Perché non ti accontenti del tuo livello? Perché senti più alto della tua natura?". Se c’é una contraddizione che Leopardi sente è questa: l’uomo è l’unico livello di natura che non è sufficiente a se stesso, è un livello di natura che sente più alto di sé. È bellissimo anche il verbo: sentire vuol dire provare con i sensi, non è appena una questione intellettuale, perché sentire vuol dire percepire con i sensi. "Perché percepisci cose più alte di te, cioè cose che non puoi fare tu?", questa è la domanda che Leopardi si pone, "perché uomo sei diverso da tutte le altre nature? perché tutte le altre son contente, sono appagate dal loro livello e tu no?". Questa è la contraddizione che il poeta non capisce. Nel Canto notturno del pastore errante dell'Asia l’autore a un certo punto fa finta di essere un pastore che pone domande e dice: "...quanta invidia ti porto candida greggia", in altri termini invidia la pecora. Pensate, Leopardi a 6-7 anni traduceva greco, latino tranquillamente e aveva studiato anche l’aramaico, cioè una personalità notevole, un livello culturale notevole, guarda una pecora e (non lo fa tanto per dire, lo fa seriamente) guarda una pecora e dice: "quanta invidia ti porto. E perché ti porto invidia?". Lui lo dice anche: "perché quando tu stai a sedere sotto l’ombra di un albero tu sei contenta e io che vorrei essere contento come te e non provare la noia, mi siedo sotto quell’albero e dopo cinque minuti uno spron mi punge". Vuol dire: dopo cinque minuti c’è qualcosa che mi dà una fitta nel fianco perché io non posso stare tranquillo, mentre a te, pecora, basta la tua natura, basta comportarti secondo natura, la mia natura è fatta in modo strano, perché la mia natura non mi basta, tutto quello che c’è intorno non soddisfa la mia natura. È quello che vi dicevo prima, la natura dell’uomo è insufficiente a sé, lo afferma Leopardi stesso nello Zibaldone e comincia a dire: "e scoprire tutti i giorni l’insufficienza, provare l’insufficienza". Ecco, per Leopardi l’uomo è questa natura, è fatto di una natura che non sa rispondere a se stessa, che cerca oltre le cose, oltre, per questo le ama, perché lo richiamano ad un oltre, di cui non è capace. Infatti guardate l’ultima domanda, che è posta al contrario ma è la stessa domanda:
Se in parte anco gentile,
Come i più degni tuoi moti e pensieri
Son così di leggeri
Da sì basse cagioni e desti e spenti?
"Se invece in parte c’è qualcosa di te che è gentile...", gentile è il contrario di vile, gentile vuol dire che ha un po' di valore, che ha qualche validità, "come mai le tue azioni più dignitose, i più degni tuoi moti, e i tuoi pensieri più dignitosi...", immaginate a tutto quello a cui diamo dignità nella nostra esperienza, all’amore, la fraternità, la giustizia, tutto quello di cui l’uomo è capace, come mai tutte queste tue azioni sono così - di leggeri vuol dire fadil mente - così facilmente destati e subito spenti da motivi così bassi, da motivi così insignificanti, come mai se sei spinto a cose così grandi, addirittura andare oltre le cose finite, come mai bastano cose piccole, il discorde accento, a distruggere tutto quello che hai costruito, tutto il bene che hai fatto?". Sono voluto partire da questa poesia di Leopardi perché mi sembra l’inizio, almeno l’inizio di un’esperienza che racconta anche Mozart seppure da un altro punto di vista. Ora però c’é da fare un altro passaggio che sintetizzo, per ché è un passaggio che quando parlo coi ragazzi mi diverto a realizzare insieme, ma adesso non è possibile. Chiedo loro: "se voi doveste rappresentare questa poesia (immaginate di fare i registi e di mettere in scena questa poesia) che personaggi usereste per metterla in scena?" E allora cominciamo a immaginare: il primo personaggio è abbastanza semplice perché si capisce che chi parla qui è un uomo, tanto è vero che Leopardi continua a dire natura umana, lo spirito umano, allora un personaggio lo abbiamo fissato: l’uomo, la natura umana, e questo è un personaggio. E il secondo quale potrebbe essere? E qui la cosa diventa un po’ complicata. Una volta una ragazza si è alzata e genialmente m’ha detto: "l’altro personaggio è quello che manca", è il personaggio che non c’è. Questa mi sembra una bella definizione, perché le domande di Leopardi esprimono esattamente questo: è come se chiedesse dov’è questa cosa che io non so creare; dov’è questa cosa? Tanto è vero che, guardate, adesso lo riprendiamo dalla poesia, tutte le volte che tenta di descrivere questa cosa, di cui ha bisogno, la descrive negativamente. Quando dico negativo vuol dire che Leopardi usa dei termini che non dicono, che negano l’esperienza. Quando per esempio scrive desiderii infiniti, con infiniti vuol significare il contrario della sua esperienza, perché nell’esperienza tutto è finito; desideri che invece non hanno niente a che fare con questa finitezza; visioni altere, che non hanno a che fare con la quotidianità, non è quello che vedo, è quello che ci sta dietro; oppure mare delizioso, mare, oceano, fino ad arrivare addirittura a paradiso.
Non è un cattolico Leopardi, però definisce quello di cui sente necessità, come qualcosa che non è qui, non è in questo mondo. Quando, mi viene in mente, quando dedica la poesia Alla sua donna dice: "se delle eterne idee l’una sei tu cui di sensibil forma sdegni l’eterno senno esser vestita...", se tu sei un’idea che non ha forma sensibile, la sua donna, ecco quello che Leopardi immagina, l’altro personaggio, è quello che non corrisponde con la realtà, che non c’è, che non è assimilabile alla realtà. Mentre l’uomo è finito, quello di cui ha bisogno è l’infinito.
Andando avanti ho fatto fare un disegno, allora alcuni mi hanno disegnato un omino stilizzato, poi hanno provato a far l’infinito, le nuvole. Ce n’è stata una ragazza che ha fatto un disegno che mi ha colpito perché molto sintetico: ha disegnato un segmento di fronte a una retta.
Che cos'è l'infinito in un disegno

Il segmento è qualcosa di finito e limitato, ha un inizio e una fine come l’uomo ha una nascita e una morte, e la retta invece è l’infinito, la cosa interessante inoltre è che il segmento deriva dalla retta, è una parte di retta. Perché vi dico questo? Perché la musica che ascoltiamo, quella di Mozart, vi assicuro è incomprensibile, incomprensibile se non ripercorrendo questa traiettoria che Leopardi ci ha chiesto. Perché uno può dire di una forma: mi piace, non mi piace; può dire: è orecchiabile, non è orecchiabile, mi dà gusto, non mi dà gusto; ma per dire che questa cosa è bella, bisogna capire perché è venuta fuori, bisogna capire da dove viene quella forma, quella cosa che vi dicevo all’inizio, perché per me fino a un certo punto non era stato così, era una questione di gusto. Mentre poter dire bello è un giudizio sull’origine di quella forma. E allora bisogna che in questo momento, prima di ascoltare Mozart, voi immaginiate un momento particolare, perché questa musica è stata scritta immaginando un momento particolare.
E ve lo descrivo in questo modo. È come se Mozart immaginasse un momento straordinario, cioè il momento in cui, tornando all’esempio banale di prima, il segmento è di fronte alla retta. Perché non si capisce questa musica se non in questo modo. Il momento che Leopardi ha sempre immaginato, (perché Leopardi usa immagini come avete visto, perché non può usare altro) quel momento che Leopardi ha sempre immaginato e desiderato (questo di ignoto amante inno ricevi) ha sempre desiderato di vedere quella bellezza, ecco quel momento lì diventa effettivo, diventa storia. Sapete perché vi dico questo? Perché la messa da Requiem come la sequenza del Requiem che Mozart ha musicato, quella messa lì è stata scritta immaginando il momento in cui l’uomo è di fronte a Dio, in cui all’uomo che ha sempre immaginato (come Leopardi descrive in modo pari a nessun altro a mio parere) che ha sempre immaginato cosa c’è dietro la realtà, che cos’è ciò da cui vengo fuori io - perché lui la chiamerà natura prima di chiamarla matrigna - il momento in cui all’uomo quello che ha sempre immaginato diventa evidente.
San Paolo dice: "nunc in speculum, nunc in aenigmate", come ora nella nebbia, ma allora sarà faccia a faccia. Ecco, la messa da Requiem è stata immaginata in quel momento, è la fotografia di quel momento, per cui bisogna che voi immaginiate quel momento e non mi rivolgo solo a una tradizione catechistica per cui dovete credere che ci sarà quel momento, vi chiedo di immaginare quel momento, come la vostra immaginazione lo può creare, perché altrimenti non si capisce come mai Mozart abbia scritto delle cose del genere. E ve lo faccio vedere anche come forma musicale. Cioè il momento in cui l’uomo ha davanti a sé quello che ha sempre cercato nella vita senza mai poterlo inquadrare, senza mai poterlo definire. Definire, perché anche definire ha la stessa radice, mettere dei limiti. Infatti la morte, per la tradizione cattolica a cui Mozart si rifà evidentemente in questo brano, la morte non ha niente di negativo, anzi è il momento in cui quell’avvenimento succede, perché la morte è questo. La messa da Requiem è la messa dei morti e per la tradizione cattolica la morte è quel momento, faccia a faccia, tutto prima era per speculum, come uno specchio, adesso di fronte, faccia a faccia. E allora dovete immaginare che tipo di sproporzione possa provare uno, perché se ce una caratteristica di questa musica, e ve la faccio notare, è la sproporzione, sproporzione assoluta, contraddizione assoluta tra quello che è un segmento e quello che è una retta, tra quello che è finito e quello che non è finito, che non ha fine, che non ha limiti.
Vi traduco prima il testo del primo brano. Vi ho messo il testo in latino perché mi sarebbe molto difficile dire attenzione al mi bemolle della seconda battuta, sarebbe difficile più che altro per voi sentirlo; mentre se vi dico attenzione a quella parola lì è più facile perché dopo la cantano in latino. Però ve la traduco in italiano per sapere il significato. "Re di tremendo potere, di straodinario potere, che salvi gratuitamente coloro che debbono essere salvati, che han bisogno di essere salvati, salva me, Fonte di misericordia". Adesso si capisce perché vi ho fatto l’esempio con la poesia di Leopardi e ho insistito così tanto. Anche qui, ci sono due personaggi evidenti, e vi chiedo di segnarli perché son sicuro, guardate, assolutamente sicuro che Mozart abbia fatto così, ha preso questo testo, aveva una matita in mano e ha fatto dei segni, e son sicuro che ha fatto quelli che vi faccio fare io. Innanzitutto ha segnato quel Re, Rex, che è esattamente quel personaggio che Leopardi definisce negativamente e che per Mozart, che condivide la tradizione cattolica, è una persona, una persona straordinaria, ma non è qualcosa di indefinibile, è una persona, Re di straordinario potere. Poi, il secondo personaggio entra in scena, è evidente, salva me, "me" che è l’altra cosa che Leopardi descriveva benissimo, il migliore in assoluto a descrivere quel me, Leopardi, un po’ più vago nel descrivere il Re. Le prime due righe sono la descrizione di che cosa sia quel Re, Rex, e lo sentirete coi suoni che cosa voglia dire Re, ora vi farò vedere la partitura e così vi dimostrerò che non sto dicendo delle cose che non stanno né in cielo né in terra. Fino a gratis c’é la descrizione di quello che Leopardi immaginava, descritto in altri termini, descritto come un Re, dopo gratis, esattamente come in un teatro, immaginate un sipario che si chiude, si riapre e non c’è più quel Re, ma c’è la natura umana come la definiva Leopardi, salva me. Quando entra il me la scena cambia totalmente; ecco la prima pagina della partitura.

Spartito Rex Tremendae di Wolfgang Amadeus Mozart

Vi faccio notare alcune cose. Innanzitutto adesso dovete immaginare che qui che ci sono, mi sembra, una decina di strumenti, camminano tutti insieme, quindi quando il maestro guida deve avere in mente tutte queste cose. Per descrivere la potenza, il Re di straordinario potere, Mozart usa gli strumenti tecnici di cui può usare, di cui può usufruire, per dare 1’immagine di che cosa voglia dire quella cosa grandissima, infinita. Uno strumento che i musicisti hanno si chiamato dinamica cioè, in altri termini, molto più semplici e volgari, il volume. Quando uno vuol dare un’idea di potenza, cerca di imporre anche col tono della voce una sensazione di potenza: quella f in fondo vuol dire forte e già possiamo immaginare, prima di aver sentito il suono, possiamo immaginare che attacco sarà, un attacco potente: con tutti gli archi, come vedete i violini sono al centro, i contrabbassi in fondo, e sopra ci sono i fiati. Guardate un attimo i fiati, quelle parti su in alto, come funzionano: partono i violini e i fiati, notate subito che c’é una sproporzione tra questi strumenti e quella botta data in levare, lì da sola, inoltre quando attacca il coro, Rex, attacca esattamente nella posizione dei fiati. Quel Rex sono le penultime quattro righe, soprano contralto tenore e basso, quello è il coro: canta Rex forte, tutti, non i soli i solisti, tutto il coro, e quel Rex è preceduto e seguito da una pausa. Mozart usa anche il silenzio per far capire che cosa vuol dire, cioè ha messo lì Rex, messo lì urlato dal coro altissimo esattamente come per rendere l’idea di questa assolutezza. Lo fa gridare tre volte al coro, assoluto, staccato da tutto il resto, come qualcosa di cui non si può aggiungere nulla. È lì, non sono io, è un’altra cosa, assoluta, come una rocca di fronte a cui uno guarda e dice che è irraggiungibile, irraggiungibile, non è per me quella cosa li, non sono io. Poi guardate il ritmo: adesso le figurazioni ritmiche non riuscite a vederle, però vedete gli archi come vanno giù a gradini. Capite che ritmo certo, sicuro, con dei punti, come dei pilastri sicuri, come dire questa cosa di cui stiamo parlando è una cosa che sta in piedi, che ha potenza, che è forte e ha potenza come le arcate di una cattedrale, come i pilastri di una cattedrale, per far capire che tutto deve dire potente, quello che io desidero, la potenza. Tutto questo fino a gratis, finché succede una cosa, cioè questo, guardate cosa succede:

Spartito rex tremendae mozart amadeus

Salva me, cioè praticamente cambia scena: sotto salva me, le righe centrali dove c’è scritto il testo, c’è scritto p, piano, siamo andati fino adesso fortissimo sia come ritmo che come volume, arriviamo a quel punto e finisce tutto. Guardate la potenza, non c’è più: le donne cantano salva me, nessuno più suona forte, non ci sono più le trombe, le trombe sono, come dire, gli strumenti da battaglia; mi spiego, quando suona la tromba si sente, molte volte spara nell’orchestra, invece qui tace tutto quello che ricorda la potenza. Salva me, Fonte di misericordia: perché Mozart avrà taciuto lì, perché lì avrà messo tutto basso? Perché è cambiato totalmente e in maniera assolutamente sproporzionata il personaggio che è in scena, perché a quel punto entra in ballo l’uomo che non è più il ritmo e la potenza sicura di prima, ma è un’altra cosa, vedremo anche nel secondo brano che cos’è. Adesso lo ascoltiamo.

Il secondo brano Confutatis maledictis, ripete questa sproporzione che vi dicevo caratterizza tutto il Requiem. Ve lo traduco velocemen te.
"Giudicate le menzogne, giudicati i colpevoli, i dannati, e gettati nelle fiamme ardenti, chiamami tra coloro che sono benedetti, tra i salvati. Ti prego supplicante e prostrato, con il cuore contrito come fosse cenere, prenditi cura del mio destino". Allora, come vedete, nelle prime tre righe uno dei due personaggi appare evidente, c’è di nuovo il me evidente, voca me, in quel punto rientra di nuovo l’uomo, la natura umana; mentre le prime due righe sono la descrizione non più del Re in quanto tale ma della sua azione, l’azione di Dio, l’azione del Mistero, dell’Infinito che giudica, perché di nuovo per la tradizione cristiana il momento della morte sarà il momento del giudizio, per questo bisogna far cercare di capire che momento sarà: Mozart ci prova e ci riesce anche bene. Il momento in cui quella retta dirà al segmento: "Sei stata fedele a me, sei stata adeguata a me?" Perché questo è il giudizio, è un paragone, nelle prime due righe, dopo addictis, succede la stessa cosa di prima, cioè lì viene descritto l’infinito, la potenza infinita, il giudizio potente, mentre nella terza riga viene richiamato in scena l’uomo, io. Le ultime righe sono tutte contraddistinte a mio parere da quella prima parola, oro, che vuol dire prego ti prego supplicante. E questa è la diversità che vi dicevo prima tra Mozart e Leopardi, c’é un altro punto di partenza: mentre Leopardi doveva immaginare, qui invece c’è uno che chiede ed è una situazione molto diversa. Mozart usa quasi gli stessi termini, cenere, Leopardi aveva detto polvere ed ombra, sei niente, lui dice cenere, però questa cenere, ve ne renderete conto anche dai suoni, è molto diversa, una cenere che può chiedere, perché sa che c’è qualcuno, mentre per Leopardi questo era impossibile, per la sua esperienza personale era impossibile. Per cui descrive l’uomo uguale a Leopardi ma la situazione è molto diversa, lo sentirete dai suoni messi su queste ultime tre righe, vi faccio vedere.

Spartito Confutatis Mozart

Guardate come parte, innanzitutto considerateli dei disegni, come se fossero disegno tecnico anche se non conoscete le note; guardate i violini e gli archi, le tre righe centrali e l’ultima in fondo, che sono i bassi, i violoncelli e i contrabbassi, volendo anche il clavicembalo, l’organo, guardate il movimento, è una linea ondulata ed è una linea che con questo ritmo, ancora più marcato di quello di prima ed ancora forte, guardate la f sotto, dà l’idea di qualcosa che avanza imperturbabile, guardate che va avanti sempre così, sempre, continua anche nella pagina successiva. Perché Mozart ha voluto fare una cosa così, sembrano le onde del mare, anche come linea, vedete va su e giù, come qualcosa che passa e senza guardare in faccia a nessuno va avanti. È come dire questo giudizio, questo Dio, ...per far sentire che cosa vuol dire potenza. Guardate gli altri elementi che Mozart usa: notate che cantano solo tenori e bassi, così come, guar date i violini come suonano in basso, nella zona bassa del penta gramma, guardate i fiati, suonano fagotti, trombe e tromboni, che sono gli strumenti più bassi. Quindi tutto il timbro di questo inizio è nel basso, perché la potenza è nel basso; se uno vuol dar l’idea della potenza non fa uno strillo acuto, acutissimo, ne fa uno potente, basso, perché qui doveva venire fuori la potenza, e penso che anche in architettura, a meno che non siano cambiate le leggi di fisica, si parte dalle fondamenta, si parte dal basso. L’armonia tonale è esattamente la stessa cosa: si parte dal basso. E tutto questo inizio del confutatis è nelle zone basse, lo sentirete cantare. Guardiamo cosa succede dopo.

Spartito Confutatis Mozart

Flammis acribus addictis, finisce que sta parte e comincia voca me.
Mozart, vi dicevo, secondo me le ha segnate queste cose, è impossibile che gli siano venute a caso, voca me cambia totalmente il registro. Innanzitutto osservate che quel ritmo che vi avevo fatto notare scompare, perché quel ritmo era qualcosa che voleva dire indiscutibilità, forza. Adesso i violini fanno una cosa tutt’altro che violenta, tutt’altro che potente, a cantare inoltre ci sono solo le donne, voca me cum benedictis. Tutto quello che sa di potente deve esser fatto fuori, quando entra in scena l’uomo, tutto quello che sa di potente non ci deve essere, perché l’uomo non è potente, come diceva Leopardi prima, insufficiente. E guardate la nota che scrive Mozart, quella l’ha scritta lui in italiano, nella nota scrive: sottovoce, fa anche capire come deve essere fatta, sottovoce, cioè senza potenza.E per far capire anche ai più sordi di orecchie Mozart lo fa ripetere due volte, la stessa contrapposizione, uomini contro donne, ritmo e volume contro canto e piano, sottovoce, finché la cosa arriva a quella domanda finale che ascolteremo insieme.
Adesso ascoltiamo.

Concludo con l’ultimo brano perché, vi dicevo prima, sono le esperienze quelle che vengono raccontate.
Non so chi di voi abbia notato che mentre tutto il brano è scritto in tonalità minore, confutatis maledictis, perché è la tonalità che più permette lo spirito sia di paura che di dolore, l’ultima cadenza - cadenza vuol dire il passaggio da un accordo a quel l’altro - sul mei finis, prenditi cura del mio destino, inaspettatamente, come poi era anche tradizione, è in tonalità maggiore. Si chiama cadenza picarda: mentre tutto tendeva a precipitare verso il peggio, quando dice destino mette un accordo maggiore, che è un accordo che dà un respiro, un orizzonte grandissimo, è come se volesse far intendere che c’è una speranza, che in mezzo a tutta questa tragedia, a questa contraddizione, come quella che diceva Leopardi, c’è una speranza, un respiro. Bach usa tantissimo questo tipo di cadenza in cui tutto sembra precipitare verso il peggio e alla fine c’è questo inaspettato accordo maggiore, come a dare un respiro a tutto quello che c’è stato prima. Vi ho detto questo perché l’ultimo brano che ascoltiamo, è la descrizione di questo respiro: racconta l’esperienza non tragicamente come finisce quel la di Leopardi che nella Ginestra chiama matrigna la natura, matrigna, ma la racconta con un’altra possibilità, un’altra possibilità. Io per questo ho voluto usare un brano che non è di Mozart, anche se avrei potuto usare dei brani di Mozart, però questo qui mi sembra ancora più esemplificativo. È il finale dello Stabat Mater di Pergolesi, questo finale racconta esattamente un’altra possibilità: vorrei farvela ascoltare perché Pergolesi lo esprime meglio coi suoni. Vi traduco l’ultimo brano. "Quando il corpo morirà, fa in modo che all’anima venga donata la gloria del paradiso". Non è totalmente fuori luogo perché, come vedete, il tema è lo stesso, viene detto: quando il corpo morirà, cioè quando saremo in quel momento, quando saremo faccia a faccia, fa in modo - quindi è una domanda come quella che aveva detto Mozart, salva me, voca me - fa in modo che la mia anima sia donata alla gloria del paradiso - quel paradiso che aveva citato anche Leopardi, - fa in modo che alla mia anima sia donata la gloria del paradiso. Ancora l’uomo che domanda, attenzione però, io, leggendo il testo, mi sarei fermato qui, perché l’ultima parola è abbastanza scontata, amen, invece per Pergolesi quell’ultima parola è importante almeno quanto tutto quello che ha detto prima. Almeno, perché sull’ultima parola dà uno spazio, compone un brano, che è lungo come tutto quello che ha detto prima. Perché mai avrà fatto questo? E con che differenza! Perché se sentite tutte le prime tre righe, sono di una umiltà, umiltà nel senso proprio di humus, terra, di stare bassi, stare bassi come prima faceva Mozart, stiamo bassi perché la natura umana è bassa, e tutto è venato da questa domanda, anche malinconica. Il finale però non è quella domanda, è come se Pergolesi dicesse sì che domandi mo, però la fine è questo amen, questa sicurezza. Sentirete come sembra quasi finire, ma non è finito, perché quell’amen finale è la vera fine di quella storia, almeno secondo Pergolesi, ma anche secondo Mozart - se ascoltate la Messa di incoronazione dell’Agnus Dei ve ne rendete conto: sentirete con che decisione viene fuori l’amen, come se fosse veramente un’altra cosa. Non è la domanda, come dire l’incertezza, è qualcosa che è più sicuro, e ancora più evidente della mia domanda, e questa è una cosa che viene descritta meglio con i suoni che con le parole.
Ascoltiamo Pergolesi.

Per concludere lasciatemi dire una cosa che penso. Se vi avessi fatto ascoltare della musica del novecento avremmo fatto molta fatica a capirci e penso che il problema non sia tanto di linguaggio, ricercato ostinatamente da tantissime correnti artistiche, dalla musica alla poesia, all’arte visiva, all’architettura. Non è un problema di linguaggio. Tant’è vero che, come dire, i linguaggi si sono andati dissolvendo, cercando il nuovo linguaggio. A me sembra che il problema vero con cui poi mi trovo ad avere a che fare anch’io, perché mi trovo a scrivere dei suoni, il problema vero sia il fatto che ci sia una povertà di esperienza dietro. Infatti se comprendiamo questi linguaggi, è perché in qualche modo questi compositori condividono un’esperienza che è anche la nostra. Per questo son linguaggi comprensibili. Certe strutture, certe forme, come dicevo all’inizio, sono incomprensibili non perché non si sappia come son costruite, con quale misterioso progetto siano state create, ma perché non comunicano un’esperienza. E questo penso sia da una parte l’aspetto più drammatico del nostro secolo e dall’altra anche però la sfida più interessante come giudizio sulle forme, qualunque tipo di forma incontriamo nella nostra esistenza.
Vi ringrazio per l’ascolto, spero di essere stato utile.