VIAGGIO IN TERRASANTA DA STRANOCRISTIANO.IT

Passare le mani, quasi spalmarle, sulla pietra levigata del SANTO SEPOLCRO, proprio lì, dove Gesù è risorto, è stata senz'altro l'esperienza più impressionante del mio viaggio in Terra Santa in questa settimana. Ogni cristiano dovrebbe andare, almeno una volta nella vita, in Terra Santa.

La Chiesa del Santo Sepolcro non è bella, ma è grande l'emozione che ti prende quando entri, pensando a quello che custodisce. Subito dopo l'ingresso, sulla destra, c'è una scalinata molto ripida, che ti porta in cima alla collina del CALVARIO. La salita è breve, ma faticosa anche a farla col passo leggero da pellegrino, e mentre sali non puoi non pensare alla pena di Chi quella fatica l'ha fatta sotto il peso della croce, dopo essere stato torturato. Arrivi davanti ad un altare e vedi dietro al vetro la roccia del Calvario, la roccia nuda, e quando ti inginocchi puoi mettere le mani dentro una fessura circolare, e toccare la roccia, la roccia vera del Calvario, proprio quella che c'era duemila anni fa quando l'hanno crocefisso. E' impressionante toccare, potere toccare proprio quella roccia lì. Tutt'intorno c'è penombra, tante candele e tante lampade illuminano discretamente le icone alle pareti. Lampade e icone tipiche delle Chiese ortodosse.

Poi si scende una scalinata e vicino, ma proprio vicino, c'è il vero e proprio Santo Sepolcro. E' una piccola Chiesa nella Chiesa più grande. Io immaginavo chissá quanto fosse lontano dal punto in cui Gesù era stato crocefisso, invece è vicinissimo 'a un tiro di sasso', dice un Vangelo, saranno al massimo trenta metri in linea d'aria. Entri nel primo ambiente, piccolo, al centro c'è una roccia, sempre sotto vetro, su cui è apparso l'angelo ad annunciare alle donne che Gesù era risorto, e poi ti chini, passi attraverso un'apertura stretta, ed entri nel cuore del mondo. Sulla destra c'è una pietra, la superficie di un altare, levigatissima, chissá quante mani l' hanno accarezzata, capisci che è successo lì, proprio lì, mi sono inginocchiata, ho baciato la pietra e ci ho passato le mani sopra, dappertutto, le ho proprio spalmate. Lo spazio è angusto, ci si sta al massimo in tre in ginocchio, dal soffitto pendono le lampade, in una specie di braciere accanto alla pietra c'è una spugna su cui puoi infilare le candele accese, e lì, nel cuore del mondo, le ho messe per la mia famiglia, per il movimento, per alcune persone in particolare.

La seconda volta che siamo andati è stata alla fine della via crucis. Avevamo un mazzo di candele che ci aveva dato Samar e, insieme a Massimo, le abbiamo accese tutte davanti all'altare del Calvario. Per ognuna, quasi, un'intenzione: le nostre famiglie, le nostre comunitá, il movimento, il Papa, Don Giussani, Don Ciccio, gli amici in Terra Santa, la Pace, gli stranicristiani, gli stranilaici...e anche il sito. Penso proprio che questo sia il primo sito internet cui sia stata dedicata una candela nel Santo Sepolcro a Gerusalemme.

E' difficile andare per ordine. Quella al Santo Sepolcro, comunque, è stata la prima 'uscita', il lunedì di Pasquetta, appena arrivati a Gerusalemme. Siamo partiti in cinque, dall'Italia, e in quasi tutti i luoghi che abbiamo visitato, eravamo gli unici pellegrini. I luoghi santi erano quasi sempre vuoti, fatta eccezione per i religiosi. Non abbiamo fatto mai la fila, e Don Ciccio non faceva che ripetere: 'Che desolazione!'.

GERUSALEMME È FANTASTICA.

Dalla terrazza del convento maronita, dove eravamo alloggiati (casa mia, diceva Sobhy, amico di vecchia data nonchè nostra 'guida locale': per chi ancora non lo conosce, uno stranoarabo, ma arabo 'doc', non c'è posto dove non incontri qualcuno da salutare, ha la specialitá di cambiare programma circa ogni ora, cosicchè non si sapeva poi bene cosa si sarebbe fatto l'ora successiva, per non parlare del giorno successivo, e Don Ciccio chiedeva continuamente: 'e allora, che facciamo adesso?') c'è una vista strepitosa, su tutta la cittá. Spicca la cupola dorata della Moschea della Roccia, ma dietro ci sono le guglie, dorate anche quelle, di una chiesa ortodossa, sullo sfondo il Getsemani, e poi tutt'intorno le cupole del Santo Sepolcro, la chiesa di San Salvatore, e chi più ne ha più ne metta. Case, casette, tetti bianchi e antenne paraboliche, scorci delle viuzze del suq, in una miscela elettrica di antichissimo e moderno.


Ho visto i monaci maroniti, con la veste lunga e nera, nero anche il cappuccio, spicca la barba, spesso bianca, sempre lunga, li ho sentiti pregare cantando melodie strane, e Sobhy mi spiegava che erano in arabo e aramaico insieme. Ho visto il patriarca armeno, con la veste e il copricapo dorati, ho visto le religiose ortodosse, di nuovo tutte vestite di nero, e poi anche certe donne copte, con in testa un velo bianco, lungo, quasi trasparente, pregare di fronte ad un'icona apparentemente preziosa, di quelle con la Madonna tutta ricoperta d'argento ma dal volto dipinto. Erano inginocchiate in una piccola cappella dentro una strana chiesa, tutta cunicoli e piccoli ambienti, a fianco del Santo Sepolcro. Ho visto i preti ortodossi, di quelli che sembrano usciti dal film Mediterraneo, ho visto i francescani, naturalmente, e ho visto tanti ebrei osservanti, chi con la kippá, chi col cappotto nero e il cappello nero con le falde, ma anche quelli col copricapo grande, rotondo e peloso, e i ricci lunghi. Li ho visti pregare al Muro Occidentale, l'antichissimo Muro. Era Pesach, la loro Pasqua, ne erano tanti, a chinare continuamente il capo in direzione del Muro, davanti a loro, con in mano i loro libri.

Ho visto il suq, dal quartiere arabo a quello cristiano. Tutte le viuzze piene di negozi e negozietti, non riesci a leggere il nome delle vie perchè le mercanzìe coprono tutti i muri, al naso arrivano gli odori più strani: acri e dolciastri, dal pane fresco alle essenze aromatiche, mentre intorno passa la gente di razze diverse, vestita nei modi più disparati, che parla chissá in quale lingua....

Ma non è un'accozzaglia di gente, una macedonia di persone, quella che vedi. Ognuno sta lì geloso e orgoglioso di quel che è, della sua storia, della sua provenienza, delle sue tradizioni, in una parola, della sua identitá.

Per tutto questo capisci di essere nel cuore del mondo. E che Gerusalemme non può appartenere ad una sola nazione.

E' difficile raccontare tutto, impossibile. Il viaggio è durato solo quattro giorni, ma sono sicura che lì ogni giorno è durato almeno settantadue ore.


LA DESOLAZIONE, DA QUESTE PARTI, HA UN NOME: SI CHIAMA BETLEMME.

Non c'è fila, al posto di blocco. Entri in cittá, dove tutto è chiuso. Gli alberghi, i negozi, i ristoranti...tutto chiuso. Abbandonato. Tristissimo. Per un bel pezzo non vedi nessuno. Si arriva alla piazza della Basilica della Nativitá, e lì c'è posto anche al parcheggio. I miei amici mi assicurano che fino a tre anni fa c'era il pienone. Ma l'Intifada, la seconda Intifada, ha allontanato i pellegrini, e questo significa il disastro in una cittá araba che vive quasi esclusivamente di turismo, da dove i cristiani se ne stanno andando.

La cosa più triste non è neanche qualche foto di Saddam, che spunta qua e lá, su volantini incollati ai muri. La cosa più triste è il manifesto con la foto di una bambina, più o meno gli anni dei miei figli, occhioni e capelli nerissimi, con vicino una croce, la bandiera palestinese, e una lunga scritta in arabo. La piazza della Basilica è piena di quei manifesti. Non serve l'interprete per capire che è stata uccisa in qualche scontro a fuoco, e che sotto accusa sono i soldati israeliani. Non occorre avere letto quella notizia in particolare, per sapere che i terroristi palestinesi spesso si mischiano ai civili, specie ai bambini, per farsene scudo. Il fatto è che quella bambina non aveva sicuramente nessuna colpa; cosa gliene potrá importare, a sua madre, di chi ha ragione e di chi ha torto? Quella morte, come tutte le altre, ha solo messo odio su odio.

La porta della basilica è bassa, piccola, è stata fatta così per impedire che i mussulmani ci entrassero dentro a cavallo. Nella parte più antica, quella tenuta dai cristiani ortodossi, la Chiesa della Nativitá è sporca, deserta, tenuta male, c'è un'aria di abbandono anche lá dentro, nonostante la suggestione delle numerosissime lampade e delle icone argentate. Scendiamo alcune scale e troviamo a destra una piccola rientranza, in basso, nel muro: è il luogo dove è nato Gesù, la cappella della Nativitá. Di fronte c'è una piccola cappella, dove due frati francescani dicono messa: è la cappella della Mangiatoia. In questo posto semplicissimo, un sistema di grotte una appresso all'altra, è nato Gesù. Più poveramente di così non avrebbe potuto. Non riesco a pensare ad altro, mentre assistiamo alla Messa, rigorosamente in lingua latina.

In tutta la Chiesa siamo venti persone. Ed è la settimana successiva alla Pasqua cattolica, e precedente a quella ortodossa. Mentre un prete ortodosso urla con un cellulare in mano, quasi fosse in mezzo al suq, entriamo nella parte più recente della Basilica, quella curata dai francescani. Ti si apre il cuore, fai un sospiro di sollievo: tutto è lindo, pulito, curatissimo. I fiori sono freschi. Tutto è pronto per accogliere frotte di pellegrini, quei pellegrini che mancano da tre anni. Vicino all'altare, una curiositá: la riproduzione del Santo Sepolcro. Ci spiegano che, poichè ai cristiani di Betlemme non è stato dato il permesso di andare a Gerusalemme, i frati, anzichè fare il presepe, hanno costruito la copia del Santo Sepolcro.

'Abbiamo paura dei terroristi, tanti kamikaze sono venuti da Betlemme, finchè dura questa maledetta intifada, niente permessi.' dicono gli israeliani. E hanno ragione.

'E noi che c'entriamo?' rispondono i nostri amici cristiani, palestinesi, 'Sapete che noi non siamo terroristi. Non siamo neanche mussulmani. E poi solo una minoranza dei mussulmani è con i terroristi. Perchè ci rendete la vita impossibile? Perchè non distinguete?'. E hanno ragione.

Anch'io sarei terrorizzata, se fossi ebrea, qui. E anch'io sarei disperata, se fossi palestinese, qui. E se cominci a parlare di colpe, si fa a gara a chi ne trova di più, a chi va più indietro nel tempo nel cercarne.

Certo, non si può neppure paragonare l'orrore degli attacchi suicidi dei terroristi alla difesa, dovuta, dell'esercito israeliano. L'ho sempre pensato e continuo ad esserne convinta.

Ma così non se ne esce più. Gli attentati ultimamente vengono sventati, è vero ed è importantissimo, ma il risentimento della gente, la diffidenza, l'odio aumentano. E chi ci rimette, al solito, è chi non c'entra niente. Da una parte e dall'altra.

La strada d'uscita la suggerisce Don Ciccio, più tardi. Dopo il Getsemani, e la Chiesa dell'agonìa (particolarissima, con le vetrate viola, volutamente buia e tetra, come l'angoscia vissuta da Gesù nei momenti prima del suo arresto) visitiamo la chiesa in cui, secondo la tradizione, c'è la tomba di Maria: qui sarebbe stata deposta prima dell'Assunzione al cielo. Tutti questi luoghi, in cui ogni pietra è segno di qualche accadimento straordinario, sono molto vicini fra loro, fuori della cittá. Da qui si vede tutta Gerusalemme, dentro la cinta delle mura di Solimano: la vista è magnifica.

'Anch'io avrei fatto le crociate, all'epoca. Avevano ragione a volersi riprendere questa terra. E' nostra. E' la nostra storia.' ho detto agli altri amici, entrando nella chiesa della Tomba di Maria.

E Don Ciccio mi ha risposto: 'L'intenzione dei crociati era buona. Ma il metodo sbagliato. Di quello che hanno fatto, cosa è rimasto? Dopo poco, hanno perso tutto. Invece guarda quello che hanno costruito i francescani. E la loro opera permane nel tempo. E cresce. Hanno custodito questi luoghi, hanno creato scuole...questo è il metodo giusto, questo è il metodo della Chiesa. Hanno avuto più di duemila martiri, per questo.'

Ecco, questa è stata la 'scoperta' del mio viaggio. Ti guardi intorno e capisci che quello che ha detto Don Ciccio è proprio vero. Una testimonianza paziente e ostinata, che ha attraversato i secoli custodendo i luoghi più sacri della cristianitá, scoprendoli, addirittura (i più grandi archeologi di quelle zone sono francescani) costruendo opere, senza cedere a nessuna pressione esterna, culturale o militare. Capisci veramente cosa significa che la Chiesa non si schiera. Non è sinonimo di NON giudicare, anzi. La Chiesa chiede innanzitutto la libertá di esistere. E in base a questo giudica i governi, le nazioni, i partiti, le persone.

In Terra Santa i francescani hanno custodito i luoghi santi, conquistandoli uno a uno, comprando, patteggiando, mercanteggiando, hanno creato scuole, hanno comprato case che tuttora sono affittate a prezzi simbolici a famiglie cristiane, permettendo loro di rimanere in una situazione difficile, come quella che stanno attraversando. I francescani, precisamente quelli dell'ordine dei frati minori, hanno avuto a cuore la presenza della Chiesa seguendo lo stesso metodo dei missionari, nè più nè meno. Stando, semplicemente, in mezzo alla gente. La costruzione delle opere è stata inevitabile. E dalla cura che hanno per i luoghi sacri che hanno in custodia, capisci che la loro è la storia di uomini di fede, di tutt'altra pasta da quei ridicoli e inutili marciatori per la pace che purtroppo siamo abituati a vedere dalle nostre parti. Dovremmo portarli in pellegrinaggio da queste parti, i marciatori col saio, per mostrare loro la testimonianza che il loro ordine sta dando al mondo intero.

Questo non significa che siano esenti da errori (tanto si potrebbe dire sulla questione dell'assedio alla Basilica della Nativitá, per esempio). Ma non è facile vivere lá. E comunque ti rendi conto che il loro metodo è quello giusto, che la loro opera è veramente grande. Il resto fa parte della debolezza umana, di cui ciascuno di noi abbonda.

La loro grande, inaspettata apertura verso la societá ebraica l'ho potuta toccare con mano incontrando uno di loro, che segue i cristiani di lingua non araba. Si chiama Pierbattista, è lì da 13 anni, parla fluentemente l'ebraico, e ci ha raccontato di quanto gli ebrei nati in Israele, sia religiosi che non, siano aperti, curiosi verso noi cristiani, in particolare verso noi cattolici. Di quanto la visita del Papa li abbia colpiti, segnati. Lui ha ben chiaro che lo Stato d'Israele è un punto di riferimento imprescindibile per il popolo ebraico tutto, e che solo accettando l'esistenza dello Stato d'Israele si può poi criticarne la politica.

Ha usato le stesse parole che avevamo ascoltato qualche ora prima dal nunzio apostolico: 'La visita del Papa ha lasciato un segno in Israele. Accadono adesso delle cose letteralmente impensabili fino a qualche anno fa, grazie proprio alla visita del Papa'. Il nunzio apostolico è una persona incredibile, intelligente, vivissima, lieta, trasuda fede da tutti i pori. Ci racconta anche lui delle straordinarie aperture del mondo ebraico verso noi cattolici. Quando dobbiamo lasciare la nunziatura, ci dispiace: lo avremmo ascoltato volentieri per delle ore.

La desolazione, da queste parti, ha un nome: si chiama Betlemme. Ma la speranza, da queste parti, ha le facce di coraggiosi uomini di fede, che, ringraziando Iddio, qui non mancano.


A Gerusalemme abbiamo fatto la via Crucis in quattro: Don Ciccio, che ci guidava, Massimo, Antonio ed io. Don Lirio aveva un appuntamento importante altrove. La via crucis è tutta dentro il suq, le stazioni sono nelle viuzze del mercato arabo, alcune sono indicate solo da semplici lastre di pietra, altre invece hanno una cappellina dedicata (mi sembra siano tre, erano aperte, con un custode ciascuno, pulite, con i fiori freschi, chiaramente curate dai francescani). Quando Massimo me l'ha detto sono rimasta perplessa: la via crucis in mezzo a tutto quel casino?

Mi ha risposto dicendo che Don Ciccio ci tiene a farla proprio così: 'Pensi che ci fosse raccoglimento intorno a Gesù, quando è andato a farsi crocefiggere?' mi ha chiesto. Non ci avevo mai pensato. E così, mentre ripercorrevamo le stazioni pensavo che, in effetti, quando Gesù ha attraversato la cittá con la croce sulle spalle, dovrebbe averlo fatto proprio fra l'indifferenza dei più. Ci sará stato chi faceva la spesa, chi trattava di affari, chi chiacchierava, bambini che giocavano correndo qua e lá, e un piccolo corteo dietro al condannato... un po' come quando adesso passa la macchina della polizia con le sirene spiegate, ti giri un attimo, poi continui a fare quel che stavi facendo...uno aspetta che accada chissá che, nella sua vita, e invece accanto a te si compie la storia del mondo e neanche te ne accorgi...

Per arrivare a Nazareth, il giorno dopo, abbiamo costeggiato il Giordano e attraversato il deserto della Giudea, quello delle tentazioni di Gesù. E' un ambiente molto particolare, perchè non c'è sabbia, ma solo roccia, tante collinette di roccia. Ai margini del deserto, nelle zone appena erbose, pascolano capre e pecore, e i pastori sono evidentemente arabi, alcuni più vecchi con la faccia scura scura, rugosa, e la kefiah in testa a proteggerli dal sole, e poi dei ragazzini che saltellano qua e lá, di cui non riesci a distinguere i lineamenti del volto. Spunta anche qualche cammello, di tanto in tanto. A un certo punto vediamo anche il Mar Morto; più avanti Don Ciccio mi indica il monte Nebo, in lontananza: da lì Mosè vide la terra promessa, che però non raggiunse mai.

A Nazareth andiamo subito alla Basilica dell'Annunciazione: è recente, e racchiude al suo interno i resti di quello che era una chiesa costruita dai crociati, frammenti di mosaici bizantini sul pavimento, e poi LA grotta, tutta bianca, con un altare in mezzo, al centro della Chiesa. Sulla base dell'altare è incisa una scritta: VERBUM CARO HIC FACTUM EST. Secondo gli archeologi, quella è la casa di Maria; secondo la tradizione, lì l'angelo Le apparve e Gesù si incarnò. Cosa si può commentare? Solo l'emozione. Da qui è iniziata la nostra storia, la storia della Chiesa e di tutta la cristianitá. Ci siamo inginocchiati davanti ed abbiamo pregato.

Dopo la Messa (non nella cripta, occupata da una celebrazione di tre monaci maroniti, spero proprio che le foto siano venute, tre monaci lunghi e neri, con le barbe bianche, dietro all'altare della piccola grotta, sembravano usciti da un film) siamo andati a trovare gli amici Memores che lavorano al Fatebenefratelli di Nazareth, appunto.

Sono sicura che Giuseppe, Daniele ed Ettore (i tre, che come i moschettieri sono quattro, ma il quarto non c'era) riuscirebbero a rendere efficiente e produttivo, economicamente in attivo anche un campo profughi, se gliene dessero l'incarico.

Loro non sono medici, ma manager: gestiscono l'ospedale, una grande opera cristiana sorta alla fine del 1800 dalla congregazione dei fatebenefratelli, quando nella zona c'era ancora l'impero ottomano...

I LAVORI FERVONO.

Giuseppe ci ha mostrato la nuova sala di terapia intensiva, che avrá quattro posti letto, i locali della geriatria e quelli che saranno i nuovi ambienti per il reparto di chirurgia. Ci ha mostrato la terrazza dove, presumibilmente, ci saranno bar e ristorante interni. E soprattutto, esternamente alla struttura ospedaliera vera e propria, il loro fiore all'occhiello: il padiglione destinato alla medicina preventiva femminile, dove cioè si effettuano le mammografie e gli altri accertamenti che possono diagnosticare diverse forme tumorali. E' il primo reparto del genere, nel territorio arabo di Israele, ed ha giá fatto 5000 interventi; di fatto è una casetta, accogliente e coloratissima (le donne che vengono qui non devono sentirsi malate, non lo sono, ci spiegava Giuseppe mentre andavamo a vedere), separata dall'ospedale vero e proprio.

'Una donna che viene qui non deve sentirsi chiedere: che ci stai a fare? Sei venuta a trovare qualcuno? Questo succederebbe se questa struttura fosse interna ai reparti, dove le donne potrebbero incontrare i ricoverati e i loro visitatori. Invece in questa maniera chi viene qui sa che incontra altre donne che sono venute a fare gli stessi suoi accertamenti, e quindi non si trova a dover chiedere nè dare spiegazioni a nessuno'. Questo ci spiegava Giuseppe, mentre osservavamo le foto del Dr Veronesi, appese alle pareti della 'casa'. Sì, perchè Veronesi, il famoso oncologo, è venuto fino a Nazareth ad inaugurare questa struttura di medicina preventiva, e ne è entusiasta. Non capisco proprio perchè non si sia fatta pubblicitá all'evento, all'epoca, sulla stampa. Di questa opera così importante io ne ho sentito parlare solo a Excalibur. Meriterebbe che se ne parlasse molto di più. Non solo per la grandezza dell'opera in sè, ma anche per la dedizione e la tenacia dei nostri amici per rimetterla in sesto. Sono venuti in quattro dall'Italia, non so se mi spiego, per sostenere qualcosa nato da un'altra congregazione, in tutt'altri tempi, qualcosa che non sará mai di loro proprietá, ma che è un pezzo della Chiesa, nella terra dove la Chiesa è nata, proprio nel paese dove la cristianitá è nata.

Un approccio pragmatico (la nostra preoccupazione è che l'ospedale funzioni, ci teneva a precisare Giuseppe) per una grande testimonianza.

Al ritorno ci fermiamo al lago di Tiberiade, nella Chiesa del Primato: proprio in riva al lago è stata costruita una piccola chiesa intorno alla roccia dove la tradizione vuole che Gesù abbia chiesto a Pietro: 'Mi ami tu più di costoro?'. Intorno alla chiesetta c'è un grande giardino, curato, colorato e silenzioso. Come al solito, neanche un pellegrino in vista.

Qui è nato il Papato, il pilastro della nostra Chiesa Cattolica. Sobhy ce lo ha ricordato più volte, mentre ce ne stavamo andando. Era emozionato anche lui, e certo non era la prima volta che veniva....

Da lontano, si vede il monte delle beatitudini. Da lassù ci deve essere una vista fantastica.

Dice Don Ciccio che il lago di Tiberiade è il posto più bello del mondo, perchè dopo che con la sua umanitá, Gesù ha parlato utilizzando le cose di questo luogo (i gigli del campo, la pesca...), ciò che qui si può vedere, osservare. Il lago è veramente bello, e anche qui, fa un certo effetto pensare che Gesù ha scelto di vivere su queste rive nei tre anni della sua vita pubblica...questo è l'ambiente dove Gesù ha vissuto in quei tre anni, in cui è successo molto di quello che i Vangeli narrano. Abbiamo poco tempo, dobbiamo proprio tornare a Gerusalemme, non possiamo vedere nè visitare nient'altro: comincio a chiedermi quando potrò ritornare.



Non so se avete presente le cene sociali ai congressi internazionali: ci si ritrova a tavola fra gente che viene da ogni dove, dall'India al Giappone, all'Australia, ai paesi dell'Est europeo, per non parlare degli americani, ognuno dei quali è spesso un miscuglio di razze di per sè. A chi lavora in universitá (e quindi anche a me) capita abbastanza spesso, tutto sommato.

Ma quella al convento maronita di Gerusalemme è stata una vera cena internazionale ed interculturale, altro che: alle cene congressuali di cui si diceva prima, di fatto si è tutti uguali. Ci differenziano i dettagli, le abitudini, gli orari di lavoro, ma la mentalitá è, in fondo, la stessa per tutti. Invece quell'ultima sera a cena insieme, a Gerusalemme, ognuno quasi rappresentava un mondo, e ci teneva a rappresentarlo, ne era orgoglioso.

Sobhy e il suo clan familiare di origine libanese, un pugno di arditi, li definireste: raccontavano di come loro padre avesse perso tutto, durante la guerra in Libano, e di come, lavorando 18 ore al giorno, fosse comunque riuscito a far frequentare l'universitá ai suoi figli (la sorella di Sobhy, endocrinologa, si è laureata in medicina in Italia). La famiglia di Sobhy è essenzialmente maronita, ma non ricordo bene chi dei presenti (un parente acquisito) ha precisato di essere cristiano di rito siro ortodosso, la qual cosa per me non aggiungeva assolutamente niente, ma per chi lo diceva costituiva un evidente motivo di orgoglio. C'era Samar, la nostra amica Samar, che vive di pura fede, palestinese doc, cristiana cattolica, ancora un'altra storia, e nel mentre Pierbattista, il francescano di cui si diceva all'inizio, rispondeva a Tonino, che lavora per il ministero degli Esteri, a Gerusalemme, e ogni tanto dalla cucina spuntavano le suore del convento, che non so bene da dove venissero, ma parlavano in francese...ognuno una faccia, una storia, un mondo.

Quella sera Abu Mazen e Arafat avevano raggiunto l'accordo per il nuovo governo, e insieme si è discusso, tanto per cambiare, del futuro, del destino di quella terra, di quei popoli. Chiaramente, non le discussioni parolaie delle nostre parti: i familiari di Sobhy vivono e lavorano a Betlemme, Samar è a Betania e accoglie donne e bambine in difficoltá: gente di frontiera, insomma, e soprattutto gente che decide di rimanere in Terra Santa perchè 'i cristiani se ne stanno andando, e non è giusto, questa è anche la nostra terra'. E qui se non sono più che ragionevoli, sensate e sentite, le motivazioni non reggono.

'Qui alle manifestazioni, non si scherza, qui se protesti ti sparano, non come da voi in Italia...' cercava di spiegarci uno. 'Durante la prima intifada io viaggiavo senza problemi, ma questa non è la seconda intifada, questa è una guerra' ci spiegava un altro.

'Che strano. Siamo in Israele, ma stasera non c'è neppure un ebreo'. pensavo a cena, mentre guardavo tutti intorno a me. Ma il mattino successivo, prima di partire, ne abbiamo incontrato uno, anzi, una, una donna ebrea, famosa, stavolta.

La casa di Fiamma Nirenstein è in una bellissima posizione nel quartiere di Gilo', anche da qui si vede tutta Gerusalemme. Si entra direttamente nel salone, luminoso e accogliente, al centro su un tavolo c'è una montagna di libri, e in un angolo, su un ripiano vicino al piano cottura, il pc portatile, aperto, accanto ad una radio accesa....proprio come piace a me...ma le sue prime parole, quando entriamo, sono: 'Avete sentito? Di nuovo un attentato, stamattina'.

Lo avevo immaginato, veramente, perchè dieci minuti prima mi erano arrivati due strani sms sul cellulare, dall'Italia: 'Dove sei?' mi chiedeva Daniele. E mia sorella: 'Sei ancora a Gerusalemme? Vieni via da lì'.

La gentilezza e la cordialitá di Fiamma Nirenstein (incredibile, in fondo l'avevo vista solo due volte, in vita mia, e solo per pochi minuti), con il suo (finalmente!) buon caffè italiano, si alternavano con la rabbia, l'incredulitá e la passione. La rabbia e l'incredulitá: 'Stamattina un'intervista alla radio, subito dopo l'attentato, e questo, non uno qualsiasi, ha cominciato dicendo 'il terrorismo non esiste'. Capite? Come ci parli con uno così? Che gli dici?' E ancora: 'Mi dicono che sono filoisraeliana. Ma io capisco bene quello che subisce il popolo palestinese. Ma i libri, quei libri su cui studiano i bambini palestinesi...come si fa a far circolare quei libri...'

E la passione: 'C'è di nuovo antisemitismo. E noi dobbiamo rispondere ricordando, sempre, la nostra storia, la storia del nostro popolo, e smascherandoli, e facendoli vergognare tutti questi antisemiti...'

Questi sono solo scorci di una conversazione di un'ora, inframezzata da telefonate da mezzo mondo, e dalla visita di un'amica, sconvolta anche lei dall'attentato. Una conversazione interessante, come può esserlo con chi vive in prima persona e conosce bene ciò di cui parla, e che ci rischia la sua vita, in quello che fa.

Avrei sottoscritto tutto quel che diceva, ma le mancava una cosa: la speranza di una via d'uscita.

La speranza purtroppo non arriva insieme alla passione, all'intelligenza ed alla serietá con cui pure ci si dedica ad un compito, ad una causa, come sta facendo Fiamma Nirenstein nel suo lavoro. La speranza, in una situazione cupa e buia come quella in cui vive tanta gente in Israele, viene incontrando certe facce, facce precise come quelle di Pierbattista, e del nunzio, e di Sobhy e dei suoi parenti, e di Samar, e di Giuseppe, Ettore e Daniele a Nazareth, di gente che sa che c'è, a Gerusalemme, una tomba vuota. E che cerca di seguire Chi l'ha abbandonata.

La nostra amica Angelica non ha perso quella speranza, anzi. La segue, la insegue insieme a noi, permanendo nella sua storia di donna ebrea. Lasciamo la casa di Gilo' augurandoci di ritrovare anche l'amica giornalista sulla stessa strada.

La sera prima di ripartire per l'Italia, quando gli ultimi ospiti se ne sono andati, siamo risaliti tutti e cinque nel grande terrazzo del convento maronita per guardare un'ultima volta Gerusalemme, nelle luci della notte. Spero che fra le mie e quelle che ha scattato Antonio ci sia qualche foto che renda almeno l'idea dello spettacolo notturno. E' difficile descriverlo. Si sa, quando i contorni delle cose non sono più così netti, è c'è la luce disordinata delle lampade e dei fari e dei neon, e sullo sfondo il cielo nero, allora tutto diventa molto più suggestivo. Qualcosa lo vedi, molto lo indovini, altro lo immagini. E' una dimensione quasi fiabesca, quella notturna. E' difficile da descrivere, ma è veramente impossibile da dimenticare.

Voglio tornare in Terra Santa.